mercoledì 26 ottobre 2011

Genealogie femministe: scacco al re

Questo testo è nato da una discussione tra il collettivo Diversamente occupate e Federica Giardini, nell'ambito di un percorso più ampio di riflessione e lavoro comune tra il collettivo e la redazione di DWF a cura di Angela Lambroglia 

Negli Stati Uniti diversi saggi e interventi hanno individuato nella rottura generazionale la radice dei problemi del femminismo e anche in Italia è presente l'idea che l'andamento altalenante del movimento delle donne dipenda da una difficile trasmissione, se non proprio da un conflitto tra donne appartenenti a generazioni diverse. Partiamo innanzitutto dal presupposto che le due realtà, quella statunitense e quella italiana, sono molto diverse tra loro e le diagnosi non potranno quindi che risentire delle diverse impostazioni e scelte assunte dai movimenti femministi nei due paesi. Vorremmo provare a capire se in Italia il difficile rapporto tra generazioni di donne sia segnato da un vero e proprio conflitto o se da rotture, interruzioni, distanze, che hanno forme e ragioni diverse. La rappresentazione dello stato delle cose che ci viene dagli Usa parla di una battaglia generazionale in corso (vedi articolo di Susan Faludi apparso su Internazionale, n. 12/18 novembre 2010, con il titolo La liberazione delle figlie), che ruota attorno ad una serie di recriminazioni delle più giovani nei confronti delle più grandi. Tra queste il maggiore sostegno ricevuto nel fare carriera nel mondo lavorativo da parte degli uomini, piuttosto che dalle donne, la sfiducia nella capacità di
rappresentanza politica da parte delle donne, l’inattualità delle tematiche del femminismo storico.
Proviamo ad esaminare queste posizioni con riferimento all'Italia. Nella nostra esperienza il rapporto con superiori di sesso femminile è stato nella maggior parte dei casi di complicità e alleanza e comunque di supporto, un dato quindi significativamente diverso da quello riportato dalle giovani statunitensi. C'è comunque da considerare quali sono i riferimenti e i modelli che una giovane donna tiene presente nella ricerca di realizzazione di sé; per quello che ci riguarda non abbiamo forse cercato il sostegno di donne leader cui affidarci per ottenere un maggiore o più rapido successo lavorativo e di vita in generale, ma piuttosto di donne che si sono smarcate, o hanno cercato di smarcarsi, dai meccanismi della presa del potere e la cui autorevolezza è manifesta a prescindere dal ruolo che ricoprono nell'impresa o nell'istituzione in cui operano.

 
Il non affidare alle donne la rappresentanza politica viene considerato spesso anche in Italia un indice decisivo della debolezza dell'immaginario delle donne stesse sulle altre donne. Le ragioni non sono però automaticamente riconducibili al non voler votare qualcuna che “somigli alla propria madre”, come risulta nell'articolo di Susan Faludi, non si tratta a nostro avviso del fatto che le donne ci rimandino un'immagine di debolezza, di insuccesso, o di una difficoltà ad associare donne e responsabilità politica. Per certi versi, infatti, vediamo donne che si muovono nel mondo della politica istituzionale con abilità e, se necessario, con cinismo, perfettamente integrate nei giochi e nelle alleanze di convenienza, ma non le scegliamo perché l'immagine che ci rimandano è quella di puri strumenti, contenitori vuoti che veicolano politiche tutte al maschile. In realtà le donne nei confronti delle quali nutriamo fiducia sono quelle per cui l'agire politico si esercita “con il massimo di autorevolezza ed il minimo di potere”, donne che mettono in discussione i modelli politici tradizionali e agiscono su altri piani e secondo dinamiche altre. 
Infine, l'inattualità delle tematiche femministe. Questa è una posizione rispetto alla quale ci sentiamo molto distanti. Sebbene tante conquiste siano innegabili, le questioni aperte sono molte, anche laddove apparentemente sono stati compiuti i maggiori progressi. Partiamo dalla sessualità. Le donne hanno conquistato l'autodeterminazione rispetto alla maternità, ma sappiamo quanto questa sia continuamente minacciata, in Italia come altrove, da politiche tese a ristabilire il controllo sui corpi delle donne. Non solo. C'è da chiedersi quanto la maggiore conoscenza rispetto ai temi della contraccezione e della salute sia andata di pari passo con l'affermazione di una sessualità libera, basata sull'espressione del desiderio femminile piuttosto che sulla complementarietà alle aspettative di una sessualità maschile indiscussa. Rispetto al mondo del lavoro le condizioni tra uomini e donne sembrano sempre più confondersi in una generale tendenza alla dedizione assoluta all'imperativo della produzione e del consumo, eppure le donne si confrontano ancora con discriminazioni legate al solo fatto di possedere un corpo fertile, livelli salariali inferiori, distribuzione impari del lavoro domestico e di cura in generale. E l'elenco potrebbe continuare.
La domanda è piuttosto come mai molte ventenni e trentenni ritengano queste problematiche lontane dalle proprie esistenze, lamentele di un passato definitivamente superato e arrivino perfino a definire le femministe attraverso qualifiche che spaziano da “pesanti” a “vipere” a “isteriche” (attributi che avremmo potuto vedere accanto al titolo di zitella qualche decennio fa) fino al concepire l'attributo di femminista come un vero e proprio insulto. Probabilmente per molte giovani donne la libertà femminile è un dato acquisito, assorbito anche senza averlo elaborato, per cui il liquidare le generazioni precedenti andrebbe letto quasi come un segnale positivo. Eppure, se questa coscienza di autonomia fosse così inconsapevolmente salda, non dovrebbe essere diffusa anche la coscienza della condizioni che la minacciano o addirittura la negano? Questa seconda consapevolezza non è invece scontata, cioè mentre i risultati delle lotte condotte dalle donne sono visibili e generalmente riconosciuti, non c'è un sapere altrettanto diffuso su presupposti e meccanismi che hanno consentito o che ripetono oppressione ed esclusione. Una situazione che deriva in parte dalla debolezza della trasmissione alle generazioni venute dopo l'esperienza del movimento femminista negli anni '70 e che proviamo a leggere secondo due ipotesi. La prima idea è che il sapere e le conquiste delle donne finiscono ciclicamente sommerse perché quello che si gioca ogni volta che il movimento conosce una delle sue successive ondate è un conflitto vero e proprio con le resistenze del patriarcato, che incontra vittorie e sconfitte e che ogni volta deve e può essere rilanciato, ma che, laddove lo si perda, si traduce anche nell'attribuzione di un senso alla storia funzionale al riassorbimento dello scontro. Così la storia diventa che le donne hanno ottenuto la parità e che non vi è più ragione per confliggere o che le donne allontanandosi dai propri ruoli tradizionali sono venute meno alla loro natura per esercitare una libertà illimitata e immorale, un male per se stesse e per la società. D’altra parte la continuità nella storia delle donne è continuamente indebolita dal fatto che si tratta per lo più di tracce “deperibili”, per dirlo con le parole di Carla Lonzi, perché è una storia intessuta dalle relazioni, dall’esperienza viva, da affetti e situazioni che si sottraggono alla storia e non da forme materiali come nella civiltà maschile. 
La seconda possibile risposta è che per lungo tempo le donne non hanno voluto fare i conti con la necessità di questa trasmissione e di una successione. Questo ci sembra sia riconducibile a due motivi. In primo luogo, quelle “venute prima” hanno creduto a lungo di comprendere automaticamente l’esperienza di donne più giovani nel proprio discorso, senza che vi fossero resti significativi, forse perché, concependosi come tutte appartenenti allo stesso tempo, non ritenevano che le “venute dopo” avrebbero avuto nulla di nuovo da aggiungere rispetto a quanto da loro già indicato, con la conseguenza di una sostanziale entropia e cecità al presente. Date queste dinamiche, collocarsi all'interno di una genealogia femminile non bastava a produrre maggiore agio e a liberare la progettualità delle giovani donne, perché mancava la condizione di una distanza rispetto a quelle venute prima e la possibilità di far circolare le parole e le pratiche da loro inventate e la loro autorità con riferimento all'esperienza singolare vissuta da ciascuna, inevitabilmente segnata dal fatto di essere eredi e allo stesso tempo contemporanee di chi aveva operato la rottura dell'ordine patriarcale. Molte donne si sono ribellate a questa impostazione e hanno cercato di prendere parola a partire dalle relazioni tra coetanee, puntando, come si legge in un numero di Dwf del 2001 Genealogie del presente, a “rinnovare il rapporto con l'esperienza, anche quando questo rinnovarsi sembra implicare un abbandono di forme consuete. Ci ripetiamo: se di fedeltà si tratta, sarà fedeltà al meglio che abbiamo imparato e che abbiamo ricevuto” (DWF, Genealogie del presente, 2001, p. 6). Tante altre hanno rinunciato, stanche di vedere quelle venute prima comportarsi come ballerine “incantate a ripetere gli stessi passi e se ce ne sono di nuovi sono solo quelli si inventano loro” (DWF, Genealogie del presente, 2001, p. 15), e questo indebolimento può forse spiegare in parte la fragilità della trasmissione successiva giunta a noi, alle attuali ventenni e trentenni.
D’altra parte c’era, e in parte c’è ancora, l’idea che fosse possibile ricominciare l'impresa di pensare e agire politicamente tenendo conto della differenza sessuale ogni volta da capo, generazione dopo generazione, senza che questo si trasformasse alla fine in una grande stanchezza e lentezza del movimento.
Ci sembra che questa idea sia per molte in discussione e che oggi ci sia più disponibilità a confrontarsi sulle idee e sulle esperienze che riguardano noi “nuove” giovani, di quanto non ve ne sia stata nei confronti delle attuali quarantenni, eterne bambine o assorbite nel discorso delle più grandi.
La questione della trasmissione va pensata anche nel contesto più ampio del rapporto con le istituzioni e con gli strumenti a disposizione per dialogare con le generazioni successive. Pensando agli USA il fenomeno va innanzitutto messo in relazione con la scelta di istituzionalizzare le istanze femministe come area di studio attraverso gli women's studies e con le conseguenze che questo ha prodotto. Si è trattato e si tratta di un lavoro grande e importante, di disseppellimento di genealogie femminili e di messa a tema di una serie di questioni prima costrette all'invisibilità, ma questo si è tradotto anche in una neutralizzazione del conflitto nel momento in cui si cede ad un'istituzionalizzazione e quindi ad un assorbimento nel sistema di potere dominante e si diventa minoranza tra minoranze in un processo più generale di pluralizzazione della società. Nel contesto delle società multiculturali tutte le istanze dei soggetti di volta in volta esclusi sembrano destinate a venire assorbite e, con specifico riferimento alle lotte delle donne, con l'istituzionalizzazione del discorso femminista, le donne diventano anche oggetto di critica perché finirebbero per riaffermare la supremazia della razza bianca e del modello eterosessuale e, sorde alle differenze sociali, per parlare con la voce del maschio bianco, per conto di altre donne, anziché sollecitare una loro presa di parola diretta (vedi strumentalizzazione delle donne per giustificare le guerre di esportazione della democrazia).
Questo tipo di processo non si è avuto invece in Italia dove la scelta di non essere incluse attraverso l'istituzionalizzazione degli studi di genere testimonia di una maggiore politicità delle lotte, di una politica diffusa che si rigenera continuamente e spontaneamente senza supporti di stato e senza atteggiamenti paternalistici e politicamente corretti, perché aspira a cambiare il senso comune, ad incidere nelle relazioni quotidiane, all'ottenere che la differenza venga assunta ovunque. Questo modello non è però senza perdite, le giovani italiane risentono di una scarsa memoria a breve termine nei confronti delle lotte di pochi decenni prima e non dispongono di strumenti per riconoscerne l'attualità laddove persistono condizioni di oppressione e di discriminazione, ma soprattutto potenzialmente potrebbero non incontrare mai la politica delle donne nel corso della propria vita perché quella spinta di politica diffusa è oggi sempre più debole. In breve non essere relegate in un sapere di nicchia rischia in Italia di tradursi in una completa invisibilità e in una neutralizzazione altrettanto potente, cui contribuiscono anche tutti gli elementi di disaffezione alla militanza che hanno radici diverse dalla storia del femminismo. Ancora nel numero di Dwf del 2001 si legge: “certe volte trovarmi in quel posto mi fa sentire inesistente e la rete delle nostre relazioni in quel posto mi appare piuttosto una riserva, una nicchia che abbiamo strappato ai veri proprietari, soverchianti per numero e per possibilità, ma benevoli tutto sommato” (DWF, Genealogie del presente, 2001, p. 10).

Spesso a complicare le cose contribuiscono anche le modalità non semplici in cui si danno le relazioni nei luoghi femministi. Il primo incontro con il femminismo non è generalmente facile, i luoghi di donne non sono accoglienti, le donne che vi si incontrano non sono madri tenere presso cui rifugiarsi, questo spesso produce una forte resistenza, difficoltà che spingono molte alla rinuncia.
Nel tempo quella fatica per essere prese sul serio e per stare con agio in quei luoghi inizialmente quasi ostili si dimostra un motore di cambiamento per la propria vita, lo stimolo a non stare sul già detto, a non ripetere luoghi comuni, a quel “partire da sé” che si rivela appunto come esperienza di presa di parola piena, fedele all’esperienza vissuta e alla responsabilità di nominarla, e che merita lo sforzo di essere fraintese, liquidate e alla fine ascoltate, perché non può essere taciuta. Ecco, nei luoghi di donne la fatica diventa quello che ti costringe a prendere parola e non al gioco delle opinioni, perché se di pura opinione si tratta quella fatica non la fai. Vai via e dici, sono vipere, pesanti, isteriche, antiche. 
Eppure c’è da chiedersi se quest’attitudine così rigorosa e feconda politicamente non sia anch’essa da mettere a confronto con i tempi che ci troviamo a vivere, con un’epoca in cui a seguito di una delusione in un contesto femminista, nella relazione con una o più donne, si rischia di non trovare altre con cui confrontarsi e di cedere alla stanchezza, perché di fatto il femminismo non è più così diffuso, la trasmissione di prossimità non è scontata, il pericolo è che se non cogli il senso di quella durezza, potrebbe mancare un’altra che te lo indichi. Allora quella pratica feconda rischia di fare terra bruciata attorno. Di creare distanza, incomprensione, percorsi paralleli che non si conoscono o non dialogano.
Non si tratta però di uno scontro, non nel senso hegeliano e marxiano del termine, non è riconducibile a una dialettica servo-padrone, in cui una parte vuole soppiantare l’altra, all'interno di una grammatica delle relazioni che rimane quella del potere e del vinto/vincitore. Carla Lonzi lo ha detto espressamente, se “la dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini” (Manifesto di rivolta femminile, p. 10), nella politica delle donne non c’è voglia di ripetere la storia del vincitore, c’è anzi un “abbandono della cultura della presa di potere” (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, p. 33).
Luisa Muraro ne ha scritto: “L’idea del divino Marchese che una donna, se vuol essere libera come gli uomini, deve simbolicamente uccidere la madre ha camminato molto nella nostra cultura (…). Quell’idea fa parte dello schema della parità, che mette in parallelo il rapporto della donna con la madre e il rapporto dell’uomo con il padre. Il risultato è aberrante, se consideriamo che la rivolta dell’uomo verso il padre per occuparne il posto, lascia fuori e salva la madre, matrice della vita. Il parallelo stesso è aberrante, perché, diversamente dall’uomo, nella madre una donna ha, insieme, la matrice della vita e il primo modello culturale per accettarsi e riconoscersi del suo sesso. (L. Muraro, L’orientamento della riconoscenza, in Diotima, Il cielo stellato dentro di noi, La Tartaruga, Milano 1992, p. 16).
Una consapevolezza che emerge anche in un passaggio di Genealogie del presente: “La differenza per me sta nell'impossibilità che sento in me e nelle altre al solo pensiero di riprodurre l'uccisione, il matricidio nel nostro caso, per guadagnare il nostro spazio, rendere possibile la nostra crescita. Così pure di rimpiazzare, all'occorrenza, madre difficile con madre facile”. (DWF, Genealogie del presente, 2001, p. 18).
Forse questa fiducia di una trasformazione che ormai è intervenuta a rendere visibile la necessità che “tra me e il mondo ci sia un'altra donna” è mancata per un certo tempo proprio a loro, “le più grandi”: “Come se nella loro esperienza non ci fosse fino in fondo la fiducia che si possa avere delle figlie che, anche conflittualmente, mantengano vivo un desiderio verso di loro e verso il modello che le aspetta, che le chiama” (DWF, Genealogie del presente, 2001, p. 19).
Eppure ci sembra che anche questa lettura sia in gran parte superata dagli scambi che coinvolgono donne con età e pratiche diverse, dalla curiosità reciproca che sperimentiamo e che potrebbe essere potenziata se negli incontri ciascuna continuasse a portare l'esperienza che le è propria, il proprio sguardo su una realtà in trasformazione. Le più giovani donne, eredi di ormai diverse generazioni di donne “liberate”, con il vantaggio delle risorse lasciateci da chi ha lottato e pensato prima di noi, ma a nostra volta alle prese con problemi nuovi, o vecchi ma in forme nuove, con le parole trasmesse, con quelle scivolate via e da recuperare e quelle di cui sentiamo il bisogno e ancora da inventare.
Quelle venute dopo, con l'esperienza del proprio tempo, di una diversa età e di diversi pensieri e bisogni, con la possibilità di continuare a far circolare la propria autorevolezza e il proprio sapere e di offrire parole con cui orientarci in futuro, rispetto al farsi e al disfarsi del movimento, senza smettere di andare avanti, rispetto a come rilanciare ogni volta il conflitto, non tra le donne stesse, ma piuttosto su quel che le donne ogni volta individuano come oppressione nei confronti di tutte quelle soggettività che rifiutano di farsi ridurre alle dinamiche della presa di potere.

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