mercoledì 18 dicembre 2013

Diritto universale alla maternità. La misura di un corpo che si espande


Il senso di te è (sempre) altrove, è tessitura di tutte le cose che devi rinnovare continuamente, non c’è un luogo che è il centro da cui tirare le fila, forse per questo siamo tanto attaccate alla politica

Ma se la politica delle donne è politica delle relazioni, si fa necessario un altro spostamento, o forse bisogna renderlo esplicito per praticarlo fino in fondo. Partire dall’esperienza della maternità, come desiderio solo di alcune e non di tutte, ci aiuta a dirlo. Vogliamo o non vogliamo diventare madri, la maternità ci riguarda e ci compete. I nostri corpi possono generare. Siamo fatte di un corpo che è fertile.
Il fatto che la maternità non sia un desiderio di tutte, non implica che sia una questione solo di alcune, a patto che si renda concreto quel che intravediamo ancora latente: potenziare il proprio desiderio in relazione a quello delle altre.
Questo passaggio, che di fatto non si è ancora dato, e va inteso come un invito, comporta che la maternità non sia una questione soltanto di chi la desidera, ma di tutte le donne, e per estensione di tutti.

Pensiamo a un diritto che metta al centro i corpi, per aprire spazi e liberare tempi per tutti. Un diritto universale alla maternità, che parla a tutte e tutti. Perché l’esperienza della maternità, se pensata oltre la singolarità, orienta a lasciare uno spazio a un altro da sé, che modifica, sposta, apre a nuovi orizzonti, senza cancellare ciò che c’era prima. Riconoscere un diritto a partire da qui, è riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine: è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro.




lunedì 6 maggio 2013

Diversamente occupate si candidano con Sandro Medici


Il 26 e il 27 maggio a Roma si terranno le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale e dei consigli dei singoli municipi. Diversamente occupate sostiene la lista Repubblica romana per Sandro Medici sindaco e porta avanti questo impegno con le candidature di due compagne del collettivo: Angela Lamboglia e Valeria Mercandino.
Perché la Repubblica romana per Sandro Medici?
La coalizione che sostiene Sandro Medici rappresenta l’unica proposta politica realmente di sinistra nel panorama di queste elezioni amministrative. E’ un progetto politico che riconosce la crisi della rappresentanza, ma non si illude che ad aprire un nuovo corso basti solo l’affidamento alle virtù dei ‘cittadini’, per definizione onesti, indipendenti rispetto alle pressioni dei poteri forti e competenti nel proprio lavoro.
Repubblica Romana punta, invece, a migliorare la vita e le politiche della città attraverso i saperi, le pratiche, le competenze che uomini e donne attivi nei movimenti e nelle associazioni hanno sviluppato in anni di lotte sul territorio.
Nessuna candidatura viene dall’alto, ma è frutto del riconoscersi tra percorsi politici che si sono incontrati anche in battaglie comuni. In questa luce vanno lette anche le candidature femminili, prevalenti nella lista per il consiglio comunale: le donne non sono chiamate per rispondere alla logica delle quote rosa o del politicamente corretto, basta guardare le storie e le realtà politiche cui ciascuna appartiene e che ciascuna porta nel progetto comune.
La scelta di Diversamente occupate di sostenere Repubblica romana con due candidature riflette la natura non personalistica di questo percorso. L’ambizione in gioco non è il semplice ingresso in consiglio comunale, ma portare le nostre istanze al centro dell’agenda politica cittadina e dare il maggiore sostegno possibile ad una coalizione che condivide le nostre stesse priorità (Leggi il Programma): lotta alla precarietà, reddito minimo garantito, coworking, diritto alla casa, mobilità sostenibile, stop alla cementificazione, bilancio trasparente, acqua pubblica, no alle discariche, diritti civili per tutte e tutti, priorità che Sandro Medici ha già portato avanti come presidente del X municipio negli ultimi dodici anni.



venerdì 19 aprile 2013

"Self-help, corporeità, generazioni"

Segnaliamo che, insieme alla Libreria Tuba di Roma partecipiamo alla

Terza giornata di 'Self-help, riparliamone!' organizzata da Archivia presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma
sabato 20 aprile ore 9.30-18.30 e intitolata 'Self-help, corporeità e generazioni'.


La giornata comprende, come le precedenti: relazioni, gruppi di discussione e confronto in riunione plenaria. Il tema è scaturito dall'incontro precedente, svoltosi il 17 novembre 2012. In seguito a quell'incontro si è formato un gruppo di lavoro per l'organizzazione di questa terza giornata, nell'ambito del quale sono state preparate le relazioni che ne costituiscono il programma, con l'obiettivo di offrire spunti di riflessione su self-help e corporeità da parte di donne nate negli anni Settanta e Ottanta. Le relazioni saranno disponibili sul blog e sulla pagina facebook prima del 20 aprile, per favorire il lavoro nei gruppi di discussione.
L'iniziativa è coordinata da Livia Geloso, consigliera di Archivia, che ha fatto parte del Gruppo Femminista per la Salute della Donna (GFSD) di Roma, il quale ha praticato per circa dodici anni il self-help. Il blog è coordinato da Pina Caporaso. La pagina facebook è curata da Paola Stelliferi, Pina Caporaso, Carmen Di Vito e Serena Fiorletta.
L'iniziativa Self-help riparliamone! ha tre finalità fondamentali: la diffusione delle informazioni sulla pratica del self-help; il confronto sul self-help con le nuove generazioni; la ricostruzione della storia del self-help in Italia.
La partecipazione è gratuita.
L'iscrizione è gradita sul blog www.self-helpriparliamone.blogspot.com, sulla pagina facebook "Self help riparliamone", sul sito di Archivia www.archiviaabcd.it.
Info 06.68401720/3470320176.

GUARDA IL PROGRAMMA COMPLETO DELLA GIORNATA 

martedì 9 aprile 2013

Prove aperte # 4


- Il tempo per me è fondamentalmente tempo in relazione. Questo tempo è il femminismo. È prendermi il  tempo per pensare, ma mai in solitudine. Il tempo che io sento come tempo per me è stancante, ma diventa generativo.
Avrà un significato il fatto che non sia mai un tempo in solitudine!
Se la relazione funziona (più che il progetto o la riunione), gira anche tutto il resto. Mi fa ordine. Genera senso. Quello che dici delle corde che se tirano in direzioni diverse ti squarciano, se invece riesco a tenerle, come sto facendo in questo periodo, mi danno forza.
Anche se non posso dire che sia un periodo chiaro, anzi, come dice Valeria è come se stessi volteggiando sulle cose, e tuttavia non mi sento soffocata e riesco a mettere ordine. Oppure si mette fa ordine da sé!
Oppure c’è una misura. Una per tutte, per esempio la relazione tra noi, che ricompone tutto il resto.

- Anche per me è così. Per esempio quando c’è stato quel periodo in cui ciascuna di noi aveva un problema, sentivo che una parte di quei problemi erano anche miei. È come se, se va bene tra noi, può andare bene anche fuori, se non va bene tra noi, no.

martedì 26 marzo 2013

Prove aperte # 3


- Quando penso al tempo per me, penso a qualcosa che faccio e che mi moltiplica il tempo, invece di  togliermelo. Non è che effettivamente il tempo si moltiplichi, piuttosto è qualcosa che faccio, a cui dedico tempo, che mette ordine in tutto il resto.
Ci sono alcune cose che mi restituiscono armonia, e quindi mi danno la possibilità di fare dei bilanci sulla vita, ma non so dire come.

- Mi fai venire in mente il fare tanta politica. Se la progetto o il collettivo funziona, sento che le energie si moltiplicano.

- Oppure capita di avere a disposizione un’ora, e pensare a mille cose con cui riempirla, ma non farne nemmeno una. Quella è un’ora morta che scombina anche il resto. Succede se sto a casa soprattutto.

lunedì 25 marzo 2013

Nella rete europea per il reddito minimo



Il 22 marzo scorso siamo state invitate a partecipare al lancio della Rete nazionale per il reddito minimo (che sta dentro il progetto EMIN - Rete europea per il reddito minimo).

Ecco come ci siamo presentate

Diversamente occupate è un collettivo femminista che nasce da una precisa volontà politica di giovani donne: prendere parola sul lavoro, a partire dalle singole esperienze di ognuna, ma andare oltre la narrazione mainstream della ‘precarietà’.
Il nome - Diversamente occupate – nomina già una condizione. Da una parte, siamo tutte lavoratrici cosiddette ‘atipiche’, perché il succedersi e spesso la coesistenza dei nostri diversi lavori ci porta lontano dal modello del lavoratore a tempo pieno, con contratto a tempo indeterminato, tutelato da diritti relativi alla retribuzione, da misure di protezione sociale per la perdita dell’impiego, dalla prospettiva di una pensione, etc.
Dall’altra Diversamente occupate dice che c’è uno spostamento nel modo in cui stiamo dentro e fuori il mondo del lavoro, uno spostamento che è pienamente inserito in una serie di dinamiche che interessano, per parte nostra l’agire politico che mette in scacco la narrazione dominante sul lavoro, che toglie il lavoro dal centro in un atto che non è di perdita ma di potenziamento del resto.
La nostra è una posizione sessuata, che si inserisce, e vuole farlo con voce autorevole, in un cambiamento strutturale e di sistema rispetto a:
  1. il mondo del lavoro, con la crescita del settore dei servizi e la sempre maggiore importanza del lavoro cognitivo,
  2. l’organizzazione della produzione, con il ricorso a tecnologie che permettono di ridurre il personale, ma anche di delocalizzarlo, rendendo superfluo il concetto di luogo di lavoro,
  3. il modello di capitalismo, immateriale, non solo per la preminenza della finanza, ma anche perché il valore si sposta dalla produzione all’immaginario, dalla merce al brand, che significa anche più manodopera in paesi emergenti, pochi lavoratori in funzioni chiave nel vecchio continente.
Stare dentro-fuori il mercato del lavoro
Questi cambiamenti si sono tradotti, tra le altre cose, in:

- frammentarietà delle situazioni lavorative, dislocazione nello spazio, dilatazione dei tempi (con i tempi di lavoro che vanno a confondersi con i tempi di vita ponendoci tutte e tutti in disponibilità permanente) soprattutto mediante le tecnologie dell’informazione (pensiamo a chi lavora da casa). Conseguenze di un cambiamento strutturale operato dalle istituzioni, a cui non è seguito però un cambiamento di organizzazione e di metodo (pensiamo al sindacato) che potesse rispondere ad un modello di lavoro differente da quello fordista.

- Questo si traduce in isolamento dei singoli e delle singole lavoratrici, non solo rispetto allo sguardo istituzionale (che non riesce a vederli, rintracciarli, categorizzarli), ma anche rispetto alla costruzione delle condizioni che sono necessarie per una negoziazione tra le parti, una negoziazione che salta oggi la mediazione e si gioca tutta sui singoli, riducendo drasticamente la possibilità di resistere al ricatto di lavori gratuiti, sottopagati, da ‘finte partite iva’, etc.
- A questo si aggiunge il discorso sulla sostituibilità di ciascuno e ciascuna, che accentua la condizione di smarrimento e di isolamento. Una retorica che lascia nell’oblio ciò che invece oggi regge il sistema lavorativo: le relazioni. Fiducia e responsabilità sono l’altra faccia della medaglia dello sfruttamento, che è spesso autosfruttamento, su cui si regge un sistema intero, soprattutto quello del lavoro immateriale e cognitivo. Se i rapporti di lavoro oggi - anche in senso subalterno (capo, dipendente) - saltano la mediazione e si costruiscono sulla relazione, il discorso sulla sostituibilità viene meno.
- C’è poi la femminilizzazione del lavoro, intesa non tanto come accesso in massa delle donne nel mondo del lavoro retribuito, quanto come messa a profitto di capacità relazionali generalmente attribuite alle donne (non traducibili in denaro) ed estensione anche agli uomini delle caratteristiche del lavoro femminile, meno pagato, meno tutelato, sempre complementare ad altre forme di reddito, insufficiente ai fini pensionistici

- A questo si aggiunge l’incapacità del lavoro di assegnare uno status. L’inconsistenza delle prospettive lavorative, insieme all’enfasi sulla flessibilità, usata ad arte per rendere appetibile sia l’impossibilità di garantire prospettive lavorative stabili che lo smantellamento delle cosiddette ‘rigidità’ del diritto del lavoro, finiscono per fare cadere l’associazione tra ciò che si è e ciò che si fa, che per gli uomini era scontata fino a qualche anno fa. Nel momento in cui il lavoro perde la sua capacità di fornire supporto alla costruzione dell’identità si aprono scenari di grande smarrimento per gli uomini, ma anche spazi di libertà soprattutto per le donne che non hanno una genealogia che lega l’identità all’immaginario sul lavoro retribuito. Cioè dentro questo processo avviene che le persone mettano in discussione l’organizzazione del lavoro, dei tempi di vita come residuali ad esso, del tempo libero come ulteriore attività produttiva che consiste nel consumo. E succede anche che qualcuno metta in discussione l’idea di una società in cui i diritti sono costruiti attorno alla figura del lavoratore e non del cittadino, un lavoratore a tempo pieno, maschio, bianco, unico cittadino dello stato sociale patriarcale.

Il passaggio dalla nostra condizione alla necessità del reddito minimo
Se, come dice Pateman, il criterio principale dello stato sociale patriarcale è rappresentato dall’indipendenza e questa a sua volta è costruita su abilità e attributi maschili - ricavando per difetto una dipendenza tutta declinata al femminile -
il piano dell'attuale modello di cittadinanza e di welfare (costruito attorno a quel lavoratore) prevede l’esclusione di tutti coloro che non si conformano a questa figura dal sistema dei diritti di protezione sociale, compresa la distribuzione del reddito.
Questo il percorso attraverso cui siamo arrivate ad appoggiare una proposta di legge per il reddito minimo garantito. Dice Pateman: “Le basi sociali dell’idea di un’occupazione (maschile) a tempo pieno si stanno sgretolando. E’ visibile l’opportunità di creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così come gli uomini, possano fare pienamente parte”.
A partire da qui, ossia da una posizione sessuata, è possibile pensare una nuova cittadinanza, perché le donne sono sempre state un soggetto escluso, e quindi più libero, rispetto a un modello di cittadinanza che oggi è in crisi, per tutti. È ora che anche il nostro Paese faccia i conti con quei diritti slegati dal lavoro, cioè quei diritti di cittadinanza da cui, le donne prima e oggi tutti, siamo esclusi. Il reddito è uno di questi diritti.
La crisi della cittadinanza porta con sé la crisi delle coordinate del reddito, inteso come reddito diretto (denaro), reddito indiretto (servizi, welfare pubblico), a cui vanno aggiunte le politiche sulle condizioni materiali di vita. Anche qui le donne per genealogia hanno una posizione autorevole per pensare un reddito sganciato dal lavoro, che diventi uno strumento per
Cosa ci aspettiamo dal reddito minimo
  1. rispondere all’esigenza di diritti sociali per chi è escluso dagli strumenti di protezione tradizionali, perché il lavoro full time a tempo indeterminato accompagnato da diritti è in arretramento, ma d’altra parte questo modello è ora inapplicabile a molte categorie di lavoratori o non desiderabile;
  2. costituisca l’occasione per cominciare a pensare un sistema di diritti che corrisponda ai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro e nella società, diritti universali, sganciati dal lavoro;
  3. rappresenti una forma di restituzione – che ci piace chiamare RESTITUZIONE D’ESISTENZA - per il lavoro gratuito o non riconosciuto, ma che produce coesione, innovazione sociale, tra cui la politica, il welfare a costo zero garantito ancora dalle donne, etc.
E’ importante fare alcune precisazioni: il reddito non va sganciato dal discorso sul welfare e dei servizi, non va inteso solo in senso monetario. Allo stesso tempo, il discorso sul reddito, ovviamente, va tenuto insieme al lavoro. Le politiche attive del lavoro non sono in contraddizione con il reddito minimo, ma questo è uno strumento che permette di sottrarsi a una logica produttivistica, al ricatto della disponibilità permanente a costo zero.
Concepiamo insomma il reddito come lo strumento “tecnico”, la riforma strumentale da cui muovere per un orizzonte più ampio, per costruire un percorso politico-culturale che vada verso l’invenzione di un nuovo paradigma di cittadinanza, attraverso pratiche di partecipazione, autogoverno che ridefiniscano il significato della ricchezza, dove per ricchezza si intende tutto ciò che è risorsa, oggi a rischio scarsità per la tendenza capitalista alla privatizzazione (cultura, saperi, corpo, acqua, territorio, scuola, sanità, incluso denaro).
Il reddito può contribuire alla ricostruzione di una cultura del comune, liberando tempi, mettendo in connessione le rivendicazioni di categorie di lavoratori finora messe in contrapposizione (garantiti-non garantiti), favorire coesione sociale.

giovedì 21 marzo 2013

Prove aperte # 2



-      Se partiamo dal tempo per me, ci si apre di nuovo il discorso sul lavoro, quello sulla sessualità oppure sui corpi e sulle vite.
Pensare al tempo per me, mi fa venire in mente l’immagine in cui ho delle corde in mano, a ogni corda è legata qualcosa della mia vita. Quando queste corde tirano in direzioni diverse, Io mi sento meno forte. È quello il momento in cui non riesco a gestire i tempi. Quando questa tensione diventa insopportabile, allora è una vera tortura. Significa che una delle cose a cui è legata la corda mi sta chiedendo la vita e io non posso dargliela, e questa tensione mi lacera.
Quando invece il tempo che dedico a ciascuna di queste cose, si stabilisce su una misura che mi va bene, anche se non l’ho data io, non viene da me, allora ho la sensazione di essere io a guidare le cose che sono legate alle corde. Le dirigo come se stessi suonando un pianoforte.
Ma questa armonia, quando c’è, può succedere che non dipenda solo da me: non sempre e non per tutto. Nonostante questo, quando c’è, sento che è la misura giusta, anche se non l’ho decisa io.
Tanto che mi resta anche la forza di dare di più, se è richiesto.
Quando dico che non sono io a dare una misura, intendo dire per esempio che sono gli altri a chiedere. E questa richiesta può essere della mia misura, oppure no. A volte è la paura degli altri che mi impone una presenza, a volte sono le circostanze che obbligano. Altre volte, anche se le motivazioni non vengono da me, sento che la misura è giusta.

-    Il punto però non è solo che a dirigere sia io o qualcun altro/a o qualcos'altro. Per me la questione è molto più altalenante. Quando non sono io a dirigere, posso sentirmi appagata, sentire che la misura della direzione che prendono le cose della mia vita mi corrisponde, e allora riesco a volteggiare su di esse, anche se non sono io a decidere dove dirigermi o dove dirigere queste cose, ma allo stesso modo, altre volte me ne sento soffocata. Così come se sono io a dirigere, può capitare che azzecchi la misura, oppure che mi senta soffocare nei miei stessi passi. Il punto secondo me è che ne va della possibilità di prendere parola sulle pressioni esterne, o sulle buone misure. Mi chiedo in cosa si trasformi quel non essere in grado di prendere parola sulle pressioni esterne, quando la situazione non è pressante? Io dove sono?
Voglio dire, il punto secondo me non sta sulla misura, più o meno a dimensione mia, non è lì che rintraccio qualcosa che mi dà il senso di quello che succede: delle pressioni così come del volteggiare sulle cose. Mi viene da dire che allora il senso sta in altro, ma non so dove esattamente.
Direi che mi ritorna dalle relazioni.