Intervento di Teresa Di Martino
Diversamente Occupate è un collettivo femminista romano che nasce in seguito ad un lavoro sul lavoro che ha visto me e le mie compagne insieme per i due numeri di DWF del 2010, Diversamente Occupate e Lavoro. Se e solo se. Lavoro proseguito con una serie di incontri con realtà femministe in diverse città italiane, tra cui l’UDI, e si è infine aperto al confronto con realtà miste, entrando a far parte del comitato promotore della manifestazione contro la precarietà del 9 aprile scorso.
Diversamente Occupate è un collettivo femminista romano che nasce in seguito ad un lavoro sul lavoro che ha visto me e le mie compagne insieme per i due numeri di DWF del 2010, Diversamente Occupate e Lavoro. Se e solo se. Lavoro proseguito con una serie di incontri con realtà femministe in diverse città italiane, tra cui l’UDI, e si è infine aperto al confronto con realtà miste, entrando a far parte del comitato promotore della manifestazione contro la precarietà del 9 aprile scorso.
Lo scambio con altre e altri ha confermato quello a cui noi avevamo provato, con i due numeri di Dwf, a dare parola. L'impossibilità di ridurre la questione del lavoro al dibattito sulla precarietà, ad un problema generazionale, all'assenza di prospettive di stabilizzazione esistenziale, occupazionale ed economica, che comunque ci sono e che viviamo sulla nostra pelle. Per noi è diventata sempre più evidente l'impossibilità di porre come dimensione entro cui collocare le nostre lotte qualsiasi disegno di riforma che lasciasse inalterata l'attuale concezione della vita produttiva, dei corpi asserviti alla produzione e al consumo, in una disponibilità permanente che ci priva della dimensione del comune, di quella dimensione collettiva di cui le donne venute prima di noi hanno fatto tesoro.
Ci siamo allora messe alla ricerca di quei nodi che rendono possibile il nostro adattamento alle dinamiche della produzione e del mercato del lavoro: ricerca di status, isolamento, svalorizzazione della sfera pubblica, abitudine alla delega, ricerca di realizzazione nel lavoro, riconoscendo poi quell’anello mancante che fa saltare la catena dell'auto-moderazione e apre all'imprevisto nel corpo indisponibile alle misure del mercato.
Così nasce, dopo due anni di attività e relazioni feconde, la proposta di aprire un dibattito, speriamo il più largo e intenso possibile, che lancio e lanciamo pubblicamente oggi in occasione di questo incontro che va verso il congresso UDI perché è anche con le donne dell’UDI che vogliamo costruire questo percorso. Parlo del diritto universale alla maternità come diritto – per donne e uomini – di un tempo ed uno spazio generativi, sottratti al paradigma della produttività che rende i corpi sterili.
A monte c'è l'analisi di Pateman su quello che lei ha definito lo stato sociale patriarcale, in cui il criterio principale di cittadinanza è rappresentato dall’indipendenza, e gli elementi compresi sotto il titolo di indipendenza si sono basati su abilità e attributi maschili. Gli uomini, e non le donne, sono stati visti come i possessori delle capacità richieste di “individui”, “lavoratori”, “cittadini”. Come corollario, il significato di “dipendenza” è associato a tutto ciò che è femminile.
Il confronto sul piano dell'attuale modello di cittadinanza e di welfare prevede per Pateman due alternative possibili: che le donne aspirino, e riescano, a diventare come gli uomini, e quindi piene cittadine di uno stato sociale pensato e costruito dai maschi, o che continuino a vivere come cittadine svalorizzate per il loro lavoro “da donne”.
Il confronto sul piano dell'attuale modello di cittadinanza e di welfare prevede per Pateman due alternative possibili: che le donne aspirino, e riescano, a diventare come gli uomini, e quindi piene cittadine di uno stato sociale pensato e costruito dai maschi, o che continuino a vivere come cittadine svalorizzate per il loro lavoro “da donne”.
Al contrario, per dare spazio di cittadinanza alle donne è proprio quel modello di stato sociale – maschile patriarcale - a dover entrare in crisi, con il proprio soggetto di diritto e con il proprio sistema simbolico, come retorica della responsabilità individuale privata e privatistica.
Com'è possibile questa operazione?
Com'è possibile questa operazione?
Pateman ci dice che perché si dia piena cittadinanza alle donne lo stato sociale deve assumere come valore sociale la responsabilità nei confronti degli altri; solo così “l’opposizione tra l’indipendenza maschile e la dipendenza femminile si rompe, e si va sviluppando una nuova conoscenza e pratica di cittadinanza. La dicotomia patriarcale, che separava le donne dalla cittadinanza basata sull’indipendenza e sul lavoro, sta subendo un cambiamento politico, e le basi sociali dell’idea di un’occupazione (maschile) a tempo pieno si stanno sgretolando. E’ visibile l’opportunità di creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così come gli uomini, possano fare pienamente parte”.
Allora se abbiamo la libertà di costruire una nuova lettura del mondo e del mondo del lavoro, chiediamoci se si può interrogare il lavoro diversamente, se si possono dare letture del lavoro diverse. E’ ora che il nostro Paese faccia i conti con quei diritti slegati dal lavoro, quei diritti di cittadinanza a cui le donne prima ed oggi tutti siamo esclusi.
La proposta di diritto universale alla maternità raccoglie questa ambizione e per questo motivo parla a tutte e tutti. Perché non è solo rivendicare il diritto alla maternità come contributo di reddito diretto e indiretto per quelle donne lavoratrici a cui non è riconosciuto - le precarie e le lavoratrici autonome – e per quelle donne che non lavorano o che scelgono di non lavorare, ma è riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine, è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro. E’ riconoscere ai cittadini, donne e uomini, il tempo della rigenerazione dei corpi, prendere atto del fallimento del paradigma della produttività a tutti i costi.
Lottare tutti insieme, donne e uomini, per un diritto esplicitamente sessuato come quello universale alla maternità, significa mettere in piedi un’alleanza tra donne e uomini, per una cittadinanza che veda la produttività dipendere dalla cura. Per lavoro di cura intendiamo non quello che donne e uomini svolgono quando si occupano di una casa, dei figli, degli anziani (quello che Pina Nuzzo ha definito manutenzione) ma un modo di fare e trasformare, una cura che si manifesta anche nel processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, che deve poter allargarsi ed essere riconosciuta come cura dei contesti, cura delle attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive, cura delle relazioni, che è proprio il modo di stare al mondo delle donne.
Eccola la maternità, così intesa, non come mettere al mondo un figlio, ma come mettere al mondo il mondo, trasformarlo, avere un modo altro di pensarlo. Allora ecco che il paradigma della riproduzione come cura – paradigma pensato dalle donne – diventa quello di tutti, diventa il nuovo paradigma del mondo e del mondo del lavoro.
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