venerdì 17 giugno 2011

Cos’è quell’aria da referendum?

Noi siamo noi! Questa è la risposta che si deve dare a chi si interroga su chi faccia parte di quel 57% di italiani che si sono recati alle urne. Sono troppo giovane (politicamente e biologicamente) per ricordare gioie politiche grandi come quella di lunedì scorso, eppure quel che va detto è che certo non si tratta di un risveglio improvviso delle coscienze degli italiani: anzi, piccoli e grandi assaggi di questo 12 e 13 Giugno si erano già divorati.
Quel che si è espresso in questo Referendum non è sintetizzabile attraverso numeri e dati, né in soggettività facilmente identificabili, ma si compone di innumerevoli identità e differenze che da almeno due anni (e in molti casi molti di più) si incontrano nelle università, nelle sedi dei comitati, nei centri sociali, in case private, in giardini pubblici, nelle case delle donne, nelle valli, in montagna e nelle piazze. Un’onda lunga che ha condiviso riflessioni politiche insieme alle più disparate invenzioni quotidiane, costanti e faticose, che hanno chiamato a partecipare a questo grande lavoro comune ancora un altro, ancora un’altra. Le piazze per il sapere bene comune, per l’istruzione pubblica, le piazze delle donne, quelle dei precari e delle precarie, quelle contro il nucleare, quelle degli operai di Finmeccanica e Fiat, non sono episodi sporadici di aggregazioni spontanee, ma si tratta di un unico grande lavoro variegato, di un lavoro nuovo.
Dietro alla vittoria del Referendum, e dietro a ogni manifestazione che la piazza ha accolto negli ultimi tre anni almeno, c’è un lavoro altro, che si sottrae alle equivalenze retributive e si apre invece all’eccedenza delle vite. Le chitarre e i canti nelle metropolitane, i banchetti per la raccolta firme nelle strade, le iniziative sparse nelle università, i gruppi di lavoro comune (laboratori, collettivi, reti, comitati), l’invasione dei mercati, le sculture di carta pesta, gli spettacoli teatrali, i concerti, gli attacchinaggi notturni, raccontano di un lavoro che non si piega alla divisione delle mansioni, ma che rende partecipi ciascuno e ciascuna attraverso i talenti e le competenze in un grande fare comune, di cui si è parte costitutiva e modificante. Un lavoro comune che ha rotto la divisione tra chi si applica in un lavoro materiale e chi in uno immateriale, un processo che si compone di relazioni, del mettersi a disposizione del comune e del ricevere indietro il comune stesso.

 
Un nodo centrale di quest’aria nuova lo dice il fatto che il grande impegno e l’enorme e entusiastica partecipazione si sono orientati soprattutto sulla questione dell’acqua e del nucleare, nonostante anche il legittimo impedimento abbia preso lo stesso numero di sì. Ma quella politica lì non fa parte di questa nuova energia che si è creata, è anzi rappresentazione di qualcosa che non appartiene più a questi nuovi tempi, né a queste nuove relazioni. Quel sì, al contrario degli altri tre, è un sì che chiude un’epoca di cui non ci interessa più parlare, anche se questo governo vorrà ancora aggrapparsi all’ultimo brandello di questa veste stracciata che indossa da tempo. Il punto è che gli altri tre sì raccontano di una politica che va la di là delle leggi, non tanto perché le nega ma perché nella molteplice partecipazione ne crea i principi e i presupposti.
Gli innumerevoli movimenti sparsi per il mondo, dal bacino del mediterraneo del sud, all’Europa, al Sudamerica, disegnano una partecipazione alla politica sotto forma di vite attive e interroganti che non ha nessuna intenzione di cedere il passo al compromesso, né di accontentarsi degli scampoli delle concessioni di governo.
A questi movimenti la politica istituzionale italiana ha risposto sempre in modo insufficiente, parziale, o non ha risposto affatto facendo finta di non vedere che chi ne fa parte non si identifica in nessuna delle opzioni di partito disponibili, né nel mercato, e tanto meno nel sapere come acquisizione di competenze da spendere in un modello di lavoro salariato tradizionale. L’affanno è quello di collocare questi movimenti in un orizzonte post-ideologico, mettendosi al riparo in questo modo sia dall’ideologia che da una qualunque possibilità di sovversione che possa trainare un cambiamento radicale. Quel che invece i partiti riescono ad ammettere è soltanto il sentimento di indignazione, ma è un dato quello dell’impegno iniquo tra acqua e nucleare, e legittimo impedimento, che sconfessa questa lettura. La politica europea, invece, ha portato allo scoperto sulle rivolte del Maghreb i limiti di un’Europa che vuole fissare la sua unione e la sua divisione solo in termini economici, a partire dai quali si decide chi è incluso o escluso, e attraverso cui passa ogni decisione “politica”. Ma non tutto può essere inscritto nelle logiche aziendali e di marketing, le vite hanno scavalcato tutto ciò che può essere previsto da una gestione aziendale. Questo impegno comune ha detto no alla delega della responsabilità politica, che non significa solo esprimersi o essere impegnati su singoli temi, ma vuol dire il tramonto di una politica del sotterfugio e dell’occasione per pochi e l’inizio di una politica come fare comune. Questa vittoria i cittadini e le cittadine non la consegnano ai politici di professione. Si sente chiaramente che il livello di richiesta di noi tutti è ormai molto alto, abbiamo aperto a una nuova cittadinanza, che rifiuta i meccanismi di esclusione e della soffocante identità nazionale e guarda alle differenze come una nuova energia aggregante. Se la politica istituzionale saprà comprendere e seguirci ben venga, ma al compromesso del sotterfugio non ci stiamo più..noi!

Roberta

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