giovedì 7 aprile 2011

InGenere

Precarie e precari, protesta in corpo

Un caldo pomeriggio d’ottobre, mentre guardavo tre donne fare irruzione in un grattacielo abbandonato e arrampicarsi fino in cima per esporre al mondo uno striscione che rivendicava i loro diritti, diritti di lavoratrici, ho pensato che la loro presa di parola fosse “violenta” e “pericolosa”. Un mese fa una scena simile: tre uomini che sventolavano le loro bandiere, bandiere di diritti, sopra la gru di un cantiere edile bloccato.

Dopo pochi giorni mi sono ritrovata sul tetto di un mobilificio in fallimento, con decine di donne sedute sul cornicione a “vegliare” sul loro striscione, anch’esso rivendicante, esposte al vento e al freddo di un inverno poco generoso. Mentre le guardavo pensavo che se in passato le rivendicazioni del mondo del lavoro passavano per la rappresentanza, oggi passano dai corpi, spesso corpi di donne.

E non succede solo perché la rappresentanza al lavoro ha perso di senso, c’è di più, qualcosa di più profondo ed inquietante: la solitudine. E’ questa la condizione materiale e simbolica che vivono oggi molte lavoratrici e molti lavoratori, soli nel lavoro, soli nella contrattazione, soli nella rivendicazione. E’ una condizione che la mia generazione ha conosciuto e conosce come esclusiva: per molte e molti il lavoro è sommerso, precario, non garantito, pagato poco, negoziato faccia a faccia con il datore di lavoro, isolato, da casa, con una camera da letto trasformata in ufficio e un pc come finestra sul mondo.

E alla differenza generazionale si aggiunge quella sessuale: donne discriminate, nella precarietà. Le giovani donne, più istruite degli uomini, flessibili, multitasking, portate al lavoro di “cura del prodotto”, responsabili, sono proprio quello che il mercato cerca (basta leggere un qualsiasi annuncio di stage/lavoro), quello stesso mercato che provvede poi, puntualmente, a discriminarle, a pagarle meno, a fargli firmare dimissioni in bianco, a respingerle quando sono in età da maternità.

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