Il 9 aprile è stata una data importante e come tutte le date porta con sé un percorso politico. La manifestazione “il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta” è stata il frutto di un lungo lavoro di tessitura, di tutte quelle reti, associazioni e gruppi che negli anni sono nate attorno al tema del lavoro e alla condizione di precarietà, lavorativa ed esistenziale. L’unione di forze, energie, desideri, saperi e pratiche ha preso corpo senza omologare, ha creato una dimensione collettiva unificante ma non ha dimenticato le differenze e la differenza.
Diversamente occupate, tra le promotrici della manifestazione, ha portato e porta la politica delle donne nella politica mista. L’alleanza con i maschi si traduce in lavoro e politica comune in cui dire – sempre – della differenza, in cui nominare ed agire la politica delle donne - nelle modalità, nei tempi, nel linguaggio e nei contenuti - per arrivare a prendere parola per tutti, partire da sé per arrivare all’altro.
E’ quella politica delle relazioni di cui si è nutrito il 9 aprile, un forte desiderio di ricomposizione, di ri-dare corpo a quel tessuto comune che è andato perso nel tempo: così si è inaugurato un percorso che parla di diritti al lavoro e nella vita. Un percorso che da più parti si tenta di minare, di strumentalizzare, di coprire con un cappello che di volta in volta passa da partitico a sindacale. E’ sintomo di una cultura che non dà credito e valore alla politica delle relazioni. In un periodo storico in cui i partiti hanno perso di senso e i sindacati di forza, sono le reti a prendere in mano le redini di un paese perduto. Sono le reti che creano movimento a cui le sigle morte si accodano, per cercare vitalità, per trovare corpi in cui rivivere.
Diversamente occupate, tra le promotrici della manifestazione, ha portato e porta la politica delle donne nella politica mista. L’alleanza con i maschi si traduce in lavoro e politica comune in cui dire – sempre – della differenza, in cui nominare ed agire la politica delle donne - nelle modalità, nei tempi, nel linguaggio e nei contenuti - per arrivare a prendere parola per tutti, partire da sé per arrivare all’altro.
E’ quella politica delle relazioni di cui si è nutrito il 9 aprile, un forte desiderio di ricomposizione, di ri-dare corpo a quel tessuto comune che è andato perso nel tempo: così si è inaugurato un percorso che parla di diritti al lavoro e nella vita. Un percorso che da più parti si tenta di minare, di strumentalizzare, di coprire con un cappello che di volta in volta passa da partitico a sindacale. E’ sintomo di una cultura che non dà credito e valore alla politica delle relazioni. In un periodo storico in cui i partiti hanno perso di senso e i sindacati di forza, sono le reti a prendere in mano le redini di un paese perduto. Sono le reti che creano movimento a cui le sigle morte si accodano, per cercare vitalità, per trovare corpi in cui rivivere.
La questione non è “cerchiamo il partito che c’è dietro”, la questione è piuttosto come inchiodare quel partito alle proprie responsabilità, come impedire che la partecipazione ad una manifestazione si trasformi nella solita passerella, come giocarsi in positivo la sua presenza. E’ questo che fa la differenza, e che l’ha fatta con i giovani Non + disposti a tutto della Cgil (tra i promotori del 9 aprile). Con loro e con le altre reti si condivide un desiderio di cambiamento, pur riconoscendo – tutti, loro compresi - le responsabilità del sindacato nella questione “precarietà”.
Anche qui. Il sindacato può diventare “l’organizzazione strutturata che decide di muovere la massa dei giovani per fare tessere” - come molti hanno detto, oppure può diventare un soggetto - finora screditato – munito degli strumenti utili affinché la negoziazione non sia più individuale e gli spazi e i tempi di lavoro tornino ad ospitare i diritti. Come noi – tutte e tutti – possiamo essere preziosi alleati in quel lento ma necessario processo di cambiamento che il sindacato, anche grazie ai più giovani - giovani donne e uomini -, sta intraprendendo.
In ogni caso restituire una porzione di fiducia non significa e non deve diventare delegare ad altri la presa di parola sul precariato e la definizione delle forme di lotta. Né tantomeno ci accontentiamo di rimanere sul piano dell’analisi della precarietà lavorativa ed esistenziale, del discorso attorno alle figure del precariato, senza arrivare mai a spostarlo su chi precarizza e su ciò che non potrebbe funzionare senza lo sfruttamento del lavoro precario.
Questo è stato, crediamo, un limite della manifestazione del 9 aprile: il 9 ha teso soprattutto alla ricomposizione tra movimenti e a rendere visibile a chi ancora considera la propria esperienza di precariato una vicenda individuale - da risolvere con negoziazioni individuali, che strappano piccole concessioni ma non cambiano l’ordine dei rapporti - che lo spazio per agire collettivamente esiste già. I precari e le precarie hanno preso parola su loro stessi e sulla necessità di fare rete. Una cosa necessaria.
E’ stata però un’occasione mancata per dire che dal precariato dipendono il funzionamento e i profitti di aziende di ogni settore, di enti, di studi professionali e che questa indispensabilità taciuta sta a noi renderla visibile, tradurla in una forza, a cominciare dallo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori precari.
E’ stata però un’occasione mancata per dire che dal precariato dipendono il funzionamento e i profitti di aziende di ogni settore, di enti, di studi professionali e che questa indispensabilità taciuta sta a noi renderla visibile, tradurla in una forza, a cominciare dallo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori precari.
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