A Paestum si è tenuto un incontro nazionale del femminismo italiano.
Era il 1976 ed è rimasto un evento storico importantissimo, perché denotava la portata di un movimento politico che non poteva più essere ignorato, e perché lì si è data forma a una spaccatura tra diverse idee del fare politica – diversi femminismi? – segno questo dell’autenticità di percorsi politici che hanno tenuto sempre a bada lo slittamento verso un’organizzazione politica che fosse più produttiva, anche se ha portato non poche fratture e, ovviamente, un indebolimento delle diverse pratiche politiche attivate.
36 anni dopo più di 700 donne, femministe e non, si incontrano di nuovo a Paestum intorno allo slogan Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica.
È passata una settimana da questo incontro, si sono dette, scritte e lette molte cose a riguardo, già sappiamo il frutto delle assemblee e di alcuni gruppi, perciò mi concentrerò su un paio di punti nello specifico.
Abbiamo sentito, fortissima, la differenza generazionale: ben lontane dal voler seguire il carrozzone dei rottamatori e di chi intende fare le pulizie alla sua maniera della classe politica e dirigente di questo paese, ci troviamo comunque a riflettere sulla differenza tra, da una parte, un’assemblea in cui per la maggior parte hanno parlato quelle che a Paestum ci erano già state 36 anni fa e, dall'altra, i piccoli gruppi in cui ha pesato di più la parola di “quelle che 36 anni ancora non ce li hanno”.
Nell’assemblea, il punto principale di discussione è stata la politica della rappresentanza, se e come partecipare, quote rosa o meno, il desiderio di contare delle donne che si traduce, a 36 anni dalla sua massima espressione di radicalità, in “le donne, anche le più giovani, vogliono contare e hanno desiderio di potere”; mentre nel piccolo gruppo di circa 40 donne (noi diversamente occupate, insieme ad altre compagne di Roma, eravamo nel gruppo pomeridiano n.9), le più giovani hanno espresso un bisogno forte, fortissimo di giustizia sociale, di possibilità di vivere una vita altra, non solo dignitosa ma più giusta e all’altezza delle loro ambizioni.
Che non sono di potere – non ho sentito con le mie orecchie, nonostante alcune dichiarazioni in assemblea che le invocavano, neanche una giovane che con la sua parola reclamasse più potere per sé e per le altre – ma di tempo e possibilità liberi dalle costrizioni di una società che non ci rappresenta – troppo spesso, troppe dimenticano quel che noi diamo per assodato e cioè che questa società non ci ha mai volute e rappresentate.
Noi – le diversamente occupate – il femminismo lo abbiamo incontrato grazie a donne più grandi che ci hanno trasmesso un sapere nato e alimentato da chi era ed è prima di noi, amore per la politica e per le relazioni tra donne.
Nonostante la difficoltà del fare politica in un periodo come questo, oltre alle relazioni con le mie compagne, è la genuinità di un pensiero e di pratiche politiche radicali che mi dà la forza di proseguire, di immaginare un mondo che riesca a contenere un così grande desiderio.
Non dimentico, non dimentichiamo quel che ci ha fatte nascere alla politica e che ci alimenta ogni giorno.
E quello che ci immaginiamo non ha nulla a che vedere con gli spostamenti che un numero alto o basso di donne possono provocare nelle istituzioni: le femministe nelle istituzioni, le femministe che operano con la pratica della relazione con donne delle istituzioni, non sono strade già tentate? E ci sarebbe da aggiungere: le donne nella politica istituzionale sono poche, in effetti, ma le donne sono membri dei consigli di amministrazione di aziende, sono alte dirigenti, ordinarie nelle facoltà, direttrici di giornali e in quelle sedi non troviamo notizie a proposito di spostamenti virtuosi. Tutto ciò non ci ha mostrato più di una volta come il potere sia neutralizzante? Evidentemente il vuoto di memoria è potente, perché nell’assemblea plenaria del 6 ottobre, c’è chi ha dovuto ricordare anche questo.
Noi preferiamo immaginare pratiche politiche che investano immediatamente le nostre vite. Ecco perché insieme ad altre abbiamo parlato di reddito di esistenza.
Un reddito che non è solo denaro, ma è fatto di servizi che assolvano alle necessità, liberino tempo ed energie che ci vengono sottratte dalla frenesia dei mille lavori.
Il reddito come uno strumento capace di rispondere a un momento complesso in cui i confini tra privato e pubblico sono saltati portandoci nella confusione tra tempo di lavoro e di vita, di cura e di produzione. Un momento in cui il lavoro mette a profitto tutta l'eccedenza di relazioni e passione che ognuna mette in quel che fa, e in cui è sempre più evidente come la riproduzione sociale sia elemento portante di questo ingranaggio.
Il reddito per togliere il lavoro dal centro della mia vita come dal dibattito pubblico, che permetta di immaginarsi forme di coalizioni diverse in un tempo in cui non è più pensabile una dimensione unica di rivendicazione. Vogliamo superare le contraddizioni tra garantite e non garantite, lavoratrici tradizionali precarie, disoccupate e migranti, contraddizioni che le rivendicazioni tradizionali attorno a contratti e statuto dei lavoratori non scardinano. Pensando a coalizioni trasversali che dobbiamo costruire.
Il reddito come un freno alla ricattabilità: per non cedere al ricatto del primo lavoro che capita - mal pagato o gratuito - e anche, perché no, del lavoro a tempo indeterminato anche se non lo voglio, perché in questi tempi di crisi dire di no sarebbe un reato. Il reddito come un freno alla ricattabilità non solo in termini di salario ma anche di condizioni sul lavoro. Il reddito come leva per rivendicare un lavoro che risponda alle mie esigenze e al mio desiderio.
Il reddito come strumento per l'autodeterminazione, perchè quest'ultima non è tutt’uno con l’indipendenza, men che meno economica, ma pensiamo che sia un ottimo passo per uscire da situazioni difficili. Pensiamo alle molte e i molti che soffrono l'isolamento di una vita stretta tra lavoro e necessità, persone cui potrebbe essere restituita qualità della vita attraverso servizi e tempo da dedicare alla dimensione sociale che spesso viene sacrificata perchè costretti. E pensiamo a situazioni a volte disperate, perché ancora troppo spesso la violenza sulle donne fa rima con la povertà e la mancanza di alternative: di nuovo, non ci centriamo sull'indipendenza economica, ma per molte donne non avere un lavoro significa non essere libere di scegliere. E in un tempo in cui le donne sono quelle che più amaramente pagano i tagli delle risorse e del welfare, noi pensiamo a una strategia per farle uscire dal ricatto del lavoro e dal ricatto della famiglia. E ancora, autodeterminazione nel senso di poter dire di no a un sistema produttivo che ci ingloba e divora nella produzione e riproduzione becera.
Il reddito è universale, perché questi movimenti di liberazione sono essenziali per le donne, ma sono necessari per tutti. Non c’è cittadinanza che tenga quando si parla di giustizia sociale, e pensiamo che un’arma come il reddito a noi sole non basta, vogliamo che sia in mano alle donne che vengono in questo paese a fare il lavoro di cura che noi molto in fretta deleghiamo loro per uscire dalle nostre case. Lo pensiamo anche per loro, per vedere cosa succede. Vogliamo che il reddito sia anche per gli uomini che in questo sistema si trovano, in maniera diversa rispetto a noi, anche loro con i loro conflitti aperti.
Diciamo reddito non perché diciamo no al lavoro tout-court ma perché conosciamo il lavoro che assorbe ogni singola energia e che non permette di investire più nulla in quello a cui teniamo di più, nella politica e nelle relazioni. Alcune ci hanno parlato dell’amore che mettono nel proprio lavoro, e di come loro ne facciano il loro spazio pubblico, la loro possibilità di fare politica. Siamo contente che esistano queste esperienze, ma noi sappiamo bene che non tutti i lavori sono spazi di realizzazione, abbiamo visto cosa significa lavorare da sole e in casa, davanti a un pc; cosa vuol dire non avere colleghe o averle ma con condizioni contrattuali talmente deboli da non potersi permettere una coalizione che porti a qualche tipo di rivendicazione; e abbiamo visto come la situazione contrattuale e lavorativa frammentata ci costringa all’isolamento perché non permette di stringere relazioni durature nel contesto lavorativo: siamo 3 mesi in un luogo, 6 in altro, un anno in un altro ancora. Col reddito non vogliamo togliere il diritto alle prime di proseguire nel loro percorso, ma vogliamo che anche per le altre ci sia possibilità di giocarsi le proprie relazioni, di fare politica al di là del lavoro.
Il discorso è appena iniziato, questi solo i motivi per cui pensiamo che il reddito sia uno strumento politico che ci può portare a una nuova forma di autodeterminazione, autodeterminazione pensata dalle donne per tutti. Volevamo inoltre dare sostegno alla nostra convinzione, rispondendo alle obiezioni che ci sono state fatte a Paestum,e non solo.
Come argomentazione a favore, si dice spesso che il reddito è uno strumento welfaristico in uso in molti paesi d'Europa. Ma è altrettanto vero che è spesso usato dai governi per disinnescare i conflitti sociali e svuotare la critica al lavoro della sua portata politica e di cambiamento.
Ora sta noi tutte pensare alle pratiche politiche necessarie per rendere il reddito di esistenza un'arma nelle nostre mani, nella direzione di una universalizzazione dei servizi, oltre che dei diritti, fuori dal controllo neoliberista.
Valeria Mercandino
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