venerdì 4 maggio 2012

Ricalcolare il percorso


Intervento per il V incontro della Scuola oltre la crescita, 
Roma, Casa Internazionale delle Donne, 3 maggio 2012
di Claudia Bruno
 

Vorrei articolare la mia testimonianza come un itinerario a tappe dove ognuna di queste è segnata dal 'ricalcolare il percorso'[1] rispetto a quello che si era previsto in partenza. Prendo in prestito questa metafora dalle nuove tecnologie dello spazio per raccontare come è cambiata la mia vita negli ultimi quattro anni, un’immagine che mi sembra calzante per i nostri tempi, dove le esistenze sono chiamate a misurarsi esclusivamente sul presente, e che può aiutarmi a spiegare però, anche come nell’epoca delle vie ‘obbligate’ e delle strade ‘senza uscita’, di fatto in più di un senso è stato possibile mettere in pratica delle strategie per non cedere al ‘ricatto occupazionale’, cioè quello di lavorare a qualsiasi condizione.


“Alla rotonda, togliere il lavoro dal centro”

Il primo aggiustamento ha riguardato l’immaginario sul lavoro.


Dai 23 ai 24 anni ho lavorato all’interno della sede nazionale di un grande ente pubblico, un ministero. Le mie giornate erano composte così: 8-9 ore di ufficio, 3-4 ore di spostamenti e attese in fermata di bus, treni e metro. Nei weekend e la sera scrivevo per un giornale locale e studiavo per l’università. Il mio luogo di lavoro era un ufficio, in dodici mesi ne ho cambiati quattro e ho passato molto tempo senza avere un pc e una connessione per poter lavorare adeguatamente. La cifra scritta sul mio contratto era corposa, anche se i soldi sono arrivati molti mesi dopo la prestazione. Potrei definire questo periodo come una continua attesa: attesa dello stipendio, attesa del rinnovo dei contratti, attesa di un computer, attesa di una stanza adatta, attesa del benestare dai vari uffici amministrativi per autorizzare il minimo cambiamento o iniziativa, attesa di mail e notizie che non arrivavano, attesa di treni e bus, attesa di tornare a casa per ‘fare tutto il resto’ di cui avevo necessità. La percezione che si affinava nei mesi era proprio quella del ‘furto di tempo’. Credo che il ricalcolo del percorso sia avvenuto mentre aspettavo che arrivassero i materiali di una campagna che seguivo insieme ad altri ragazzi e che si intitolava, per una perversa legge del contrappasso ‘I giovani non devono più aspettare’. Me ne andai dicendomi che qualsiasi fosse il compenso, non volevo più starmene chiusa in un ufficio per tutte quelle ore, sequestrata viva al mondo fuori.

Quando incontrai quelle che oggi sono le Diversamente occupate (collettivo femminista  composto da otto donne tra i 27 e i 30 anni, con cui ci siamo incontrate anni fa all’interno della redazione di Dwf - rivista storica del femminismo romano, che ha sede qui alla Casa) non avevo ancora dato un nome a questa decisione. Cominciammo a parlare di come vivevamo il lavoro, di come ci percepivamo rispetto a questa dimensione. Non ci bastava la parola “precarie”, come ci chiamavano. Non ci sentivamo “disoccupate”, anche se molte di noi al momento non avevano un vero e proprio contratto di lavoro. In modi differenti ma intersecati le nostre vite erano un concentrato saturo di occupazioni, ma non avevamo le parole per dirlo. Così un po’ per scherzo e un po’ no ci siamo definite “Diversamente Occupate” che poi è diventato anche il titolo di un numero che abbiamo curato per Dwf e il nome del nostro blog.

Dopo tre anni di attività insieme è successo che dall’immaginario dominante del lavoro come valore ultimo da inseguire a tutti i costi e a qualsiasi condizione ci siamo mosse: abbiamo riletto in chiave critica la cosiddetta ‘femminilizzazione’ del mercato, abbiamo smascherato la ‘retorica della flessibilità’ – grande equivoco dei nostri tempi, un concetto frainteso che troppo spesso si è andato a sovrapporre a quello di 'disponibilità permanente', condizione tutt’altro che flessibile -, in un certo senso “abbiamo tolto il lavoro dal centro” e ci abbiamo messo le nostre esistenze.

Ragionare in termini di diritti è stato inevitabile, e ci siamo rese conto di come oggi quello del lavoro non sia più un diritto inclusivo ma prepotentemente esclusivo, basato sulle disponibilità economiche e di salute individuali, sulla legge del più forte, quindi su una visione competitiva e individualista, oltre che su un welfare a costo zero che si regge sulle famiglie e in particolar modo sulle attività di manutenzione svolte gratuitamente ancora perlopiù dalle donne. Sintomi, questi, del fatto che attualmente il diritto al lavoro così com’è confezionato, in un paese come il nostro, e non solo, è di fatto insufficiente a funzionare come motore e collante di una società e non può esserne fondamento. È necessario pensare a un modello di giustizia sociale capace di fare i conti con quello che realmente sta accadendo e rivolgere l’attenzione a un diritto più pieno di cittadinanza che significhi diritto all’esistenza, alla vita. Va ridefinito cos’è lavoro, quindi, e vanno rese visibili le connessioni tra diritto al lavoro e diritto ai servizi, all’abitare, alla salute, al cibo di qualità, all’aria pulita, all’acqua pubblica e buona, alla terra fertile, ai saperi, alla maternità, al tempo.

Attualmente non abbiamo strumenti condivisi per fare questo. Io vedo che ognuno si sta arrangiando per sé o in piccoli gruppi, e questo da una parte mi consola, perché capisco che sotto la superficie strisciano energie vitali che resistono al fascino soporifero delle vecchie strutture e sovrastrutture, dall’altra mi fa rabbia perché siamo ancora nel regime del “si salvi chi può, tutti gli altri periscano pure”. 

“Tra duecento metri, negoziare tempi, spazi e desideri”

Il secondo aggiustamento ha riguardato la negoziazione di tempi, spazi e desideri.

L’allontanamento dal modello dell’ufficio è coinciso per me con il lavoro ‘a distanza’ come redattrice web e giornalista. Componevo insieme più part-time per raggiungere un reddito soddisfacente rispetto agli standard e potevo lavorare da qualsiasi luogo, l’importante era che ci fosse il mio pc. Una transizione dal posto ‘fisso’ al posto ‘flessibile-nomade-delocalizzato’, in tutti i sensi. Per lo più, in realtà, lavoravo dalla mia stanza di figlia, ma non mi percepivo collocata da nessuna parte. Nonostante riuscissi ad accumulare un reddito intero seduta alla mia scrivania, i miei genitori continuavano a confondersi chiedendomi la sera se avevo ‘finito di studiare’, e a domandarmi se avevo mandato cv per trovare un lavoro ‘vero’.

Le mie giornate erano così composte: 9-10 ore al pc tra lavori pagati e attività di pensiero non pagate, seduta a una scrivania, riduzione al minimo di relazioni sociali, assenza totale di attività pratiche o manuali (mia madre le faceva per me), forti mal di schiena, infiammazione del tunnel carpale, cali della vista, cali di umore, abbrutimento. Del lavoro in ufficio mi mancava soprattutto lo scambio con le colleghe e i colleghi, il camminare, l’incontro con altri sul treno la mattina, quella piccola comunità itinerante che si rincontrava ogni giorno sullo stesso vagone raccontandosi in venti minuti.

Questo è stato forse il tratto più difficile della transizione. Allo stesso tempo, però, è servito in modo insostituibile come laboratorio per iniziare a capire sul mio corpo cosa significasse negoziare con altri e con me stessa per una qualità di vita più soddisfacente.

Mentre facevo i conti con il lavorare dalla mia stanza, con le Diversamente occupate approdavamo alla consapevolezza di poter esercitare una forza nei contesti lavorativi che fino a prima ci avevano assorbite e digerite dietro al nascente mito della flessibilità di tempi, spazi e relazioni. Non ci bastava che il mercato ci avesse incluse, ci interessava capire a quali condizioni potevamo starci dentro come donne. Noi adesso volevamo dire “Lavoro, se e solo se”: un’operazione ambiziosa, quella di pretendersi autrici di condizioni, laddove il lavorare incondizionato (a tutte le ore-in tutti i luoghi-per qualsiasi fine-anche gratis) rappresenta l’unica modalità di stare nel mercato.

La forza nostra era la forza che viene dalle relazioni, relazioni che – adesso avevamo capito - potevamo stringere tra noi, con altre e altri dentro e fuori dai progetti per cui eravamo pagate. Ormai per noi era evidente che: l’isolamento, l’atomizzazione, non fanno che renderci ricattabili e senza alcuna scelta.

In un certo senso, insieme, ci stavamo scrollando di dosso l’immaginario dell’ansia sul futuro per riappropriarci del “presente” inteso come condizione più piena di esistenza, presa sulla realtà, e non come gabbia di senso eterodiretta. Abbiamo iniziato, ognuna a suo modo, a riprenderci le nostre vite.


“Alla fine della strada, fate inversione a U”

Il terzo aggiustamento è ancora in corso e per me ha riguardato più da vicino una decrescita - inversione di rotta, transizione, se ci piace di più chiamarla così - che ha aperto lo spazio ad evoluzioni e salti in avanti. Tra le Diversamente occupate è circolata per mesi la frase “voglio una vita che mi assomiglia”, e ognuna di noi secondo me a un certo punto si è messa in cammino per avvicinarsi quanto più possibile alla realizzazione di questo desiderio.

Per me, quindi parlo a titolo strettamente personale, questo avvicinamento è significato lavorare da casa, non più da una stanza di figlia ma da uno spazio abitativo che condivido con il mio compagno, lavorare meno ore, guadagnare meno denaro di prima, per un progetto che condivido e che tiene insieme lavoro e politica; ripensare quindi il reddito come composto di denaro e di quello che con le Diversamente occupate abbiamo chiamato ‘tempo fertile’, che per me è lo spazio vuoto che non deve avere la fretta di essere riempito, condizione fondamentale affinché si manifesti la possibilità di generare qualcosa.

In questo tempo (fertile) non ci metto la manutenzione[2] di spazi abitativi e corpi, che le donne della mia generazione stanno tentando faticosamente di condividere con i propri compagni, una sfida storicamente importante, perché da un lato lascia andare una parte di potere sulla gestione del quotidiano che per genealogia una donna si trova già tra le mani, dall’altro prende le distanze dalla cultura della conciliazione tra ‘tempi di vita e tempi di lavoro’ come problema esclusivamente femminile, e dal mito di quella che io chiamo la ‘wonder-woman multitasking’, un’etichetta carina per nominare in positivo lo sfruttamento dei nostri corpi e delle nostre intelligenze.  

A proposito di conciliazione e di modelli di sviluppo, ad esempio, l’idea che un elettrodomestico possa liberare una donna - circolata tra le nostre madri, le prime ad essere entrare nel mercato del lavoro - non discute minimamente l’assunto che la manutenzione del domestico sia un problema prevalentemente femminile e insieme svalorizza il saper fare e ci rende dipendenti dal petrolio anche nelle più piccole azioni quotidiane. Quello che sta succedendo oggi nelle nostre case – accogliere la sfida della condivisione all’interno delle nostre convivenze – da una parte è inevitabile storicamente (anche se i governi non ne prendono atto, pensiamo all’ultima proposta ridicola di congedo di paternità obbligatorio, pari a tre giorni continuativi), dall’altra la interpreto come una forma di disobbedienza all’immaginario della famiglia nucleare eterosessuale che fa perno sull’assunto che ogni donna anche se lavoratrice dev’essere ‘angelo del focolare’, figura illustrata bene da Virginia Woolf negli anni '30[3] e che poi la cultura della crescita economica ha trasformato in un cyber-angelo del focolare, esperto di elettrodomestici e incline a dialogare con robot da cucina e folletti aspirapolvere.

Tornando alla ridefinizione del mio reddito, nel tempo fertile ci metto invece: il pensiero, la scrittura, la cura delle relazioni (che è altra cosa rispetto all’accumulazione di contatti), la politica (anche se alcune parti della politica sono anch'esse lavoro di manutenzione), l’impegno per cambiare, lo studio e la ricerca fuori dalle istituzioni, quindi la formazione continua, l’amore, la sessualità, la possibilità di maternità, la cura dell'alimentazione, la cura degli spazi abitati, la cura del corpo, il silenzio, l’ozio. Molte di queste attività, non tutte materiali, praticamente tutte nell’ordine della necessità e in connessione con la felicità, non possono essere delegate attraverso l’acquisto, hanno bisogno di tempo per essere fatte e condivise.

Io credo che il grado di libertà di un paese potrebbe essere misurato in relazione alla presenza o meno di questo tempo nella vita di ognuna/o. 
 È esattamente la disposizione a generare, la fertilità – fisiologica o simbolica che sia – che il regime di precarietà va a intaccare e inibire. Penso al nostro dover essere sempre accesi, always on, dover rispondere sempre di sì ad ogni offerta. Le nostre vite sono caricate di una tale moltiplicazione di progetti e accumulazione di contatti che spesso siamo impediti nel movimento perché saturi, paralizzati rispetto a un cambiamento reale, in modo molto simile a cosa avviene quando si ha paura. In quest’ottica anche il tanto esaltato ‘fare rete’ da opportunità può rivelarsi una trappola per pesci stanchi di nuotare. È questo che si intende, credo, quando si dice che la ‘precarietà rende sterili’.

Tornando ai miei incroci e rotatorie, dopo aver rifiutato due proposte importanti di crescita di stipendio e posizione all’interno di due realtà per cui avevo lavorato, ho intrapreso quindi insieme ad altri colleghi e colleghe giornalisti e attivisti, il sentiero del progetto di informazione libera con la redazione de IlCambiamento.it, che forse alcuni di voi conosceranno, e che dà spazio ad approfondimenti di informazione, formazione e azione sui temi della decrescita, della sostenibilità e dei nuovi stili di vita.

Con questa redazione, in un certo senso, io sto ripensando il lavoro a partire dal percorso politico e di pensiero fatto. Siamo tutti giovani, tutti precari, tutti senza tutele, e violati nei diritti. Che libertà ci resta in mano per cambiare rotta? Poca e tanta insieme.

Oltre al tipo di informazione che facciamo, alcuni esempi pratici:

Le forme di finanziamento che abbiamo scelto escludono finanziamenti statali all'editoria, finanziamenti di partito, finanziamenti di investitori non in linea con la nostra visione. Al momento a sostenere il nostro progetto è l’associazione PAEA, progetti alternativi per l’energia e l’ambiente e un sistema misto di sottoscrizioni  e pubblicità etica, quindi siamo più precari di quanto già non dovremmo essere.
Cerchiamo di creare tra noi una rete di solidarietà che compensi l’insicurezza di welfare in cui ci troviamo.
A proposito di pratiche non mediate dal denaro, faccio un esempio forse stupido ma efficace: per il compleanno ci regaliamo a vicenda un giorno libero, questo significa lavorare un po’ di più per coprire il lavoro del collega il giorno del suo compleanno.
Abbiamo da poco ospitato un progetto in divenire che si chiama ‘Ufficio di scollocamento’, che vuole essere uno sportello di servizio per chi vuole o deve cambiare vita, e che si pone come uno spazio di formazione per prendere le distanze dal modello dominante della dipendenza da lavoro incondizionato, che va di pari passo con quello del consumismo sfrenato. 


Per chiudere, eccomi qua oggi: ventotto anni, nessuna soluzione in mano, a ripartire dalle relazioni e a fare i conti su più fronti con quello che mi viene da chiamare 'ritorno al domestico' [4].

Per quanto riguarda le relazioni, mi viene in mente quello che mi ha risposto una donna di 30 anni che si chiama Deborah e fa parte come facilitatrice del movimento nazionale delle città di Transizione e che è andata a vivere con il suo compagno in un borgo vicino Perugia. Quando le ho chiesto in un’intervista cosa significasse per lei ‘essere vicini’ mi ha risposto che significa essere “davvero dipendenti l’uno dall’altro”, e mi ha fatto l’esempio del suo vicino di casa che fa il formaggio che lei mangia e che non vuole né autoprodursi, né acquistare al supermercato. Ecco, questo mi ha fatto molto pensare alla attuale condizione di 'vicinanza' con alcune persone. 

Non ho firmato nessun contratto che sancisca una mia dipendenza da qualcuno o qualcosa, ma posso dire di essere davvero dipendente da Daniel, il direttore del giornale che gestiamo quotidianamente, con il quale immagino ogni giorno le sorti dei nostri progetti comuni e del nostro futuro prossimo; di essere davvero dipendente dal mio compagno, con cui condivido economie e attività di manutenzione quotidiane e che ha una attenzione e una conoscenza della cucina che io non ho; di essere davvero dipendente dalla mia famiglia con cui condivido beni materiali, cibo, assistenza, affetto; di essere davvero dipendente dalle mie compagne di politica, con cui scambio libri, passaggi in macchina, idee, annunci di lavoro e soprattutto strategie di sopravvivenza. Non so dire se tutto questo sia un bene, perché a volte vivere con l’impressione che se venisse meno un nodo di questa rete verrebbe meno anche una parte della tua libertà è a dir poco spiazzante, soprattutto venendo fuori da un modello dove per mezzo del denaro hai l’illusione che la tua libertà non venga mai meno perché dipende da un sistema di deleghe a terzi piuttosto che dalla relazione con persone in carne e ossa. Comunque, non potendo giudicare, per ora mi limito a constatare quello che accade: proprio nel momento in cui ci ripetono ovunque che siamo "tutti sostituibili", si creano reti di solidarietà in cui ognuno è insostituibile per l'altro.

Su quello che prima ho chiamato ‘ritorno al domestico’, devo fare un inciso, perché è fondamentale rendere visibile la posizione da cui si parla: per tornare a casa bisogna disporre di uno spazio da abitare, e oggi abitare non è un diritto ma un privilegio, io in questo senso mi sento in dovere di dire che ho avuto la possibilità di accedere a questo privilegio, ma non mi basta. È una questione di giustizia, che non svanisce quando giro le chiavi nella toppa e mi chiudo la porta alle spalle. Sono stata all’Aquila, due anni dopo il terremoto, e quelle macerie, le crepe lungo i muri delle abitazioni del centro 'bene', ora un centro fantasma, mi hanno parlato soprattutto di questo: che i confini tra casa tua e il mondo sono adesso completamente permeabili, dobbiamo prenderne atto. Camminare lungo le strade del centro dell’Aquila per me è stato come camminare lungo la ferita aperta di reciproche indifferenze durate troppi anni, giustificate e protette dai perimetri di cemento armato degli appartamenti familiari. La sfilza di chiavi delle abitazioni crollate, appese per strada, per me sono state una potente testimonianza del fatto che non possiamo più separare quello che succede tra le mura di quel cemento e ciò che accade fuori. Al terremoto materiale se ne aggiunge uno di senso quindi.

In secondo luogo, come donna, sulla mia pelle ho provato che ‘tornare a casa’, anche quando si tratta di lavoro, non è mai un passaggio semplice, perché si porta dietro il carico di una ineliminabile memoria storica, quella delle donne che sono venute prima, e che hanno lottato per uscire e far sentire la loro voce in uno spazio condiviso.

Dall’altra parte, mi sembra che accanto alla ormai frequentata affermazione che “per cambiare il mondo bisogna varcare l’uscio di casa”, stia prendendo corpo la consapevolezza che “l’unica rivoluzione possibile è quella che inizia da casa tua”.
Penso alle pratiche di sostenibilità che molti di noi stanno intraprendendo: dal consumo di prodotti alimentari o per la casa biologici ed ecologici, alla coltivazione di un orto in balcone, alla riduzione dei consumi, alla raccolta differenziata, alle scelte energetiche e abitative meno impattanti, allo scambio di prodotti, pratiche e idee nel corso di riunioni che si svolgono dopo il lavoro nelle case... L’attraversamento del confine tra domestico e politico, innescato anni fa proprio dalle donne con quel il personale è politico, mi sembra che oggi si voglia concedere tutte le direzioni possibili, aprendo la strada all’inclusione del politico nel domestico. Uno sconfinamento che rischia di essere indigesto per la nostra cultura politica, tanto più per una donna, e che quindi credo vada necessariamente ripensato.

Se non fosse per il fatto che non si tratta esattamente di ‘un ritorno a casa’, sarebbe  una questione noiosa da porsi. Ma tornare indietro è impossibile quando è lo sguardo ad essere mutato, e forse tornare a casa non ha soltanto a che fare con il luogo da cui veniamo, ma con quello verso cui siamo in movimento. Credo che dovremmo ripartire da qui, prendere a misura la dimensione ‘domestica’ (e non ‘addomesticata’) delle nostre esistenze per capire dove stiamo andando. Se non ripartiamo dallo stile di vita che vogliamo, dalla vita che ci assomiglia, ho l’impressione che non ci spingeremo molto lontano da qui.

Note a margine
1. l'immagine del ricalcolare il percorso è spuntata fuori durante una lezione di canto, sono in debito di immaginario, quindi, con la mia insegnante Carla, che l'ha usata per farmi capire come funziona la voce nel corpo, come accade per tutti i conflitti tra il vecchio e il nuovo che ci portiamo addosso, è difficile farla uscire dal sentiero già calpestato. Ma questa è un'altra storia!
2. Sulla distinzione tra manutenzione e cura rimando alle parole di Pina Nuzzo, delegata nazionale UDI fino al 2011
3. Consiglio di lettura, Virginia Woolf, 'Professioni per le donne', 1931
4. Consiglio di lettura, Sandra Burchi 'Lavorare in casa. Racconti di uno strano ritorno', Genesis, VII/1-2

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