Intervento per il V incontro della Scuola oltre la crescita,
Roma, Casa Internazionale delle Donne, 3 maggio 2012
di Claudia Bruno
di Claudia Bruno
Vorrei articolare la mia testimonianza come un itinerario a
tappe dove ognuna di queste è segnata dal 'ricalcolare il percorso'[1] rispetto a
quello che si era previsto in partenza. Prendo in prestito questa metafora dalle
nuove tecnologie dello spazio per raccontare come è cambiata la mia vita negli
ultimi quattro anni, un’immagine che mi sembra calzante per i nostri tempi, dove le esistenze sono
chiamate a misurarsi esclusivamente sul presente, e che può aiutarmi a spiegare
però, anche come nell’epoca delle vie ‘obbligate’ e delle strade ‘senza
uscita’, di fatto in più di un senso è stato possibile mettere in pratica delle
strategie per non cedere al ‘ricatto occupazionale’, cioè quello di lavorare a
qualsiasi condizione.
“Alla rotonda, togliere il lavoro dal centro”
Dai 23 ai 24 anni ho lavorato all’interno della sede
nazionale di un grande ente pubblico, un ministero. Le mie giornate erano
composte così: 8-9 ore di ufficio, 3-4 ore di spostamenti e attese in fermata
di bus, treni e metro. Nei weekend e la sera scrivevo per un giornale locale e
studiavo per l’università. Il mio luogo di lavoro era un ufficio, in dodici
mesi ne ho cambiati quattro e ho passato molto tempo senza avere un pc e una
connessione per poter lavorare adeguatamente. La cifra scritta sul mio
contratto era corposa, anche se i soldi sono arrivati molti mesi dopo la
prestazione. Potrei definire questo periodo come una continua attesa: attesa
dello stipendio, attesa del rinnovo dei contratti, attesa di un computer,
attesa di una stanza adatta, attesa del benestare dai vari uffici
amministrativi per autorizzare il minimo cambiamento o iniziativa, attesa di
mail e notizie che non arrivavano, attesa di treni e bus, attesa di tornare a
casa per ‘fare tutto il resto’ di cui avevo necessità. La percezione che si
affinava nei mesi era proprio quella del ‘furto di tempo’. Credo che il
ricalcolo del percorso sia avvenuto mentre aspettavo che arrivassero i
materiali di una campagna che seguivo insieme ad altri ragazzi e che si intitolava,
per una perversa legge del contrappasso ‘I
giovani non devono più aspettare’. Me ne andai dicendomi che qualsiasi
fosse il compenso, non volevo più starmene chiusa in un ufficio per tutte
quelle ore, sequestrata viva al mondo fuori.
Quando incontrai quelle che oggi sono le Diversamente
occupate (collettivo femminista composto da otto donne tra i 27 e i
30 anni, con cui ci siamo incontrate anni fa all’interno della redazione di Dwf
- rivista storica del femminismo romano, che ha sede qui alla Casa) non avevo ancora dato un nome a questa decisione. Cominciammo a
parlare di come vivevamo il lavoro,
di come ci percepivamo rispetto a questa dimensione. Non ci bastava la parola
“precarie”, come ci chiamavano. Non ci sentivamo “disoccupate”, anche se molte
di noi al momento non avevano un vero e proprio contratto di lavoro. In modi
differenti ma intersecati le nostre vite erano un concentrato saturo di
occupazioni, ma non avevamo le parole per dirlo. Così un po’ per scherzo e un
po’ no ci siamo definite “Diversamente Occupate” che poi è diventato anche il
titolo di un numero che abbiamo curato per Dwf e il nome del nostro blog.
Dopo tre anni di attività insieme è successo che dall’immaginario
dominante del lavoro come valore ultimo da inseguire a tutti i costi e a
qualsiasi condizione ci siamo mosse: abbiamo riletto in chiave critica la
cosiddetta ‘femminilizzazione’ del mercato, abbiamo smascherato la ‘retorica
della flessibilità’ – grande equivoco dei nostri tempi, un concetto frainteso
che troppo spesso si è andato a sovrapporre a quello di 'disponibilità
permanente', condizione tutt’altro che flessibile -, in un certo senso “abbiamo
tolto il lavoro dal centro” e ci abbiamo messo le nostre esistenze.
Ragionare in termini di diritti è stato inevitabile, e ci
siamo rese conto di come oggi quello del lavoro non sia più un diritto
inclusivo ma prepotentemente esclusivo, basato sulle disponibilità economiche e
di salute individuali, sulla legge del più forte, quindi su una visione
competitiva e individualista, oltre che su un welfare a costo zero che si regge
sulle famiglie e in particolar modo sulle attività di manutenzione
svolte gratuitamente ancora perlopiù dalle donne. Sintomi, questi, del fatto che attualmente il
diritto al lavoro così com’è confezionato, in un paese come il nostro, e non
solo, è di fatto insufficiente a funzionare come motore e collante di una società
e non può esserne fondamento. È necessario pensare a un modello di giustizia sociale
capace di fare i conti con quello che realmente sta accadendo e rivolgere
l’attenzione a un diritto più pieno di cittadinanza che significhi diritto
all’esistenza, alla vita. Va ridefinito cos’è lavoro, quindi, e vanno rese
visibili le connessioni tra diritto al lavoro e diritto ai servizi, all’abitare,
alla salute, al cibo di qualità, all’aria pulita, all’acqua pubblica e buona, alla
terra fertile, ai saperi, alla maternità, al tempo.
Attualmente non abbiamo strumenti condivisi per fare questo.
Io vedo che ognuno si sta arrangiando per sé o in piccoli gruppi, e questo da
una parte mi consola, perché capisco che sotto la superficie strisciano energie
vitali che resistono al fascino soporifero delle vecchie strutture e
sovrastrutture, dall’altra mi fa rabbia perché siamo ancora nel regime del “si
salvi chi può, tutti gli altri periscano pure”.
“Tra duecento metri, negoziare tempi, spazi e desideri”
Il secondo aggiustamento ha riguardato la negoziazione di
tempi, spazi e desideri.
L’allontanamento dal modello dell’ufficio è coinciso per me
con il lavoro ‘a distanza’ come redattrice web e giornalista. Componevo insieme
più part-time per raggiungere un reddito soddisfacente rispetto agli standard e
potevo lavorare da qualsiasi luogo, l’importante era che ci fosse il mio pc. Una
transizione dal posto ‘fisso’ al posto ‘flessibile-nomade-delocalizzato’, in
tutti i sensi. Per lo più, in realtà, lavoravo dalla mia stanza di figlia, ma
non mi percepivo collocata da nessuna parte. Nonostante riuscissi ad accumulare
un reddito intero seduta alla mia scrivania, i miei genitori continuavano a
confondersi chiedendomi la sera se avevo ‘finito di studiare’, e a domandarmi
se avevo mandato cv per trovare un lavoro ‘vero’.
Le mie giornate erano così composte: 9-10 ore al pc tra
lavori pagati e attività di pensiero non pagate, seduta a una scrivania,
riduzione al minimo di relazioni sociali, assenza totale di attività pratiche o
manuali (mia madre le faceva per me), forti mal di schiena, infiammazione del
tunnel carpale, cali della vista, cali di umore, abbrutimento. Del lavoro in
ufficio mi mancava soprattutto lo scambio con le colleghe e i colleghi, il
camminare, l’incontro con altri sul treno la mattina, quella piccola comunità itinerante
che si rincontrava ogni giorno sullo stesso vagone raccontandosi in venti
minuti.
Questo è stato forse il tratto più difficile della
transizione. Allo stesso tempo, però, è servito in modo insostituibile come
laboratorio per iniziare a capire sul mio corpo cosa significasse negoziare con
altri e con me stessa per una qualità di vita più soddisfacente.
Mentre facevo i conti con il lavorare dalla mia stanza, con
le Diversamente occupate approdavamo alla consapevolezza di poter esercitare
una forza nei contesti lavorativi che fino a prima ci avevano assorbite e
digerite dietro al nascente mito della flessibilità di tempi, spazi e
relazioni. Non ci bastava che il mercato ci avesse incluse, ci interessava
capire a quali condizioni potevamo starci dentro come donne. Noi adesso
volevamo dire “Lavoro, se e solo se”: un’operazione ambiziosa, quella di
pretendersi autrici di condizioni, laddove il lavorare incondizionato (a tutte le ore-in tutti i luoghi-per
qualsiasi fine-anche gratis) rappresenta l’unica modalità di stare nel
mercato.
La forza nostra era la forza che viene dalle relazioni,
relazioni che – adesso avevamo capito - potevamo stringere tra noi, con altre e
altri dentro e fuori dai progetti per cui eravamo pagate. Ormai per noi era
evidente che: l’isolamento, l’atomizzazione, non fanno che renderci ricattabili
e senza alcuna scelta.
In un certo senso, insieme, ci stavamo scrollando di dosso
l’immaginario dell’ansia sul futuro per riappropriarci del “presente” inteso
come condizione più piena di esistenza, presa sulla realtà, e non come gabbia
di senso eterodiretta. Abbiamo iniziato, ognuna a suo modo, a riprenderci le
nostre vite.
“Alla fine della strada, fate inversione a U”
Il terzo aggiustamento è ancora in corso e per me ha
riguardato più da vicino una decrescita - inversione di rotta, transizione, se ci piace di più chiamarla così - che ha aperto lo spazio ad evoluzioni e
salti in avanti. Tra le Diversamente occupate è circolata per mesi la frase
“voglio una vita che mi assomiglia”, e ognuna di noi secondo me a un certo
punto si è messa in cammino per avvicinarsi quanto più possibile alla
realizzazione di questo desiderio.
Per me, quindi parlo a titolo strettamente personale,
questo avvicinamento è significato lavorare da casa, non più da una stanza di
figlia ma da uno spazio abitativo che condivido con il mio compagno, lavorare meno
ore, guadagnare meno denaro di prima, per un progetto che condivido e che tiene
insieme lavoro e politica; ripensare quindi il reddito come composto di denaro e di quello
che con le Diversamente occupate abbiamo chiamato ‘tempo fertile’, che per me è lo spazio vuoto che non deve avere la fretta di essere riempito, condizione
fondamentale affinché si manifesti la possibilità di generare qualcosa.
In questo tempo (fertile) non ci metto la
manutenzione[2] di spazi abitativi e corpi, che le donne della mia generazione
stanno tentando faticosamente di condividere con i propri compagni, una sfida
storicamente importante, perché da un lato lascia andare una parte di potere
sulla gestione del quotidiano che per genealogia una donna si trova già tra le
mani, dall’altro prende le distanze dalla cultura della conciliazione tra
‘tempi di vita e tempi di lavoro’ come problema esclusivamente femminile, e dal
mito di quella che io chiamo la ‘wonder-woman multitasking’, un’etichetta
carina per nominare in positivo lo sfruttamento dei nostri corpi e delle nostre
intelligenze.
A proposito di conciliazione e di modelli di sviluppo, ad
esempio, l’idea che un elettrodomestico possa liberare una donna - circolata
tra le nostre madri, le prime ad essere entrare nel mercato del lavoro - non
discute minimamente l’assunto che la manutenzione del domestico sia un problema
prevalentemente femminile e insieme svalorizza il saper fare e ci rende
dipendenti dal petrolio anche nelle più piccole azioni quotidiane. Quello che
sta succedendo oggi nelle nostre case – accogliere la sfida della condivisione all’interno
delle nostre convivenze – da una parte è inevitabile storicamente (anche se i
governi non ne prendono atto, pensiamo all’ultima proposta ridicola di congedo
di paternità obbligatorio, pari a tre giorni continuativi), dall’altra la
interpreto come una forma di disobbedienza all’immaginario della famiglia
nucleare eterosessuale che fa perno sull’assunto che ogni donna anche se
lavoratrice dev’essere ‘angelo del focolare’, figura illustrata bene da
Virginia Woolf negli anni '30[3] e che poi la cultura della crescita economica ha
trasformato in un cyber-angelo del focolare, esperto di elettrodomestici e
incline a dialogare con robot da cucina e folletti aspirapolvere.
Tornando alla ridefinizione del mio reddito, nel tempo
fertile ci metto invece: il pensiero, la scrittura, la cura delle relazioni
(che è altra cosa rispetto all’accumulazione di contatti), la politica (anche se alcune parti della politica sono anch'esse lavoro di manutenzione),
l’impegno per cambiare, lo studio e la ricerca fuori dalle istituzioni, quindi la formazione continua, l’amore, la sessualità, la possibilità
di maternità, la cura dell'alimentazione, la cura degli spazi abitati, la cura del corpo, il
silenzio, l’ozio. Molte di queste attività, non tutte materiali, praticamente
tutte nell’ordine della necessità e in connessione con la felicità, non possono
essere delegate attraverso l’acquisto, hanno bisogno di tempo per essere fatte
e condivise.
Io credo che il grado di libertà di un paese potrebbe
essere misurato in relazione alla presenza o meno di questo tempo nella vita di
ognuna/o.
È esattamente la disposizione a generare, la fertilità – fisiologica
o simbolica che sia – che il regime di precarietà va a intaccare e inibire.
Penso al nostro dover essere sempre accesi, always
on, dover rispondere sempre di sì ad ogni offerta. Le nostre vite sono
caricate di una tale moltiplicazione di progetti e accumulazione di contatti che
spesso siamo impediti nel movimento perché saturi, paralizzati rispetto a un cambiamento
reale, in modo molto simile a cosa avviene quando si ha paura. In quest’ottica
anche il tanto esaltato ‘fare rete’ da opportunità può rivelarsi una trappola
per pesci stanchi di nuotare. È questo che si intende, credo, quando si dice che la
‘precarietà rende sterili’.
Tornando ai miei incroci e rotatorie, dopo aver rifiutato due proposte importanti di crescita di
stipendio e posizione all’interno di due realtà per cui avevo lavorato, ho
intrapreso quindi insieme ad altri colleghi e colleghe giornalisti e attivisti,
il sentiero del progetto di informazione libera con la redazione de IlCambiamento.it, che forse alcuni di voi conosceranno, e che dà spazio ad
approfondimenti di informazione, formazione e azione sui temi della decrescita,
della sostenibilità e dei nuovi stili di vita.
Con questa redazione, in
un certo senso, io sto ripensando il lavoro a partire dal percorso politico e
di pensiero fatto. Siamo tutti giovani, tutti precari, tutti senza tutele, e
violati nei diritti. Che libertà ci resta in mano per cambiare rotta? Poca e
tanta insieme.
Oltre al tipo di informazione che facciamo, alcuni esempi
pratici:
Le forme di finanziamento che abbiamo scelto escludono
finanziamenti statali all'editoria, finanziamenti di partito, finanziamenti di investitori non in linea con la nostra
visione. Al momento a sostenere il nostro progetto è l’associazione PAEA,
progetti alternativi per l’energia e l’ambiente e un sistema misto di
sottoscrizioni e pubblicità etica, quindi siamo più precari di quanto già non dovremmo essere.
Cerchiamo di creare tra noi una rete di solidarietà che compensi
l’insicurezza di welfare in cui ci troviamo.
A proposito di pratiche non mediate dal denaro, faccio un esempio forse stupido ma efficace: per il
compleanno ci regaliamo a vicenda un giorno libero, questo significa lavorare
un po’ di più per coprire il lavoro del collega il giorno del suo compleanno.
Abbiamo da poco ospitato un progetto in divenire che si
chiama ‘Ufficio di scollocamento’, che vuole essere uno sportello di servizio
per chi vuole o deve cambiare vita, e che si pone come uno spazio di formazione
per prendere le distanze dal modello dominante della dipendenza da lavoro incondizionato, che va di pari passo con quello del consumismo sfrenato.
Per chiudere, eccomi
qua oggi: ventotto anni, nessuna soluzione in mano, a ripartire dalle relazioni
e a fare i conti su più fronti con quello che mi viene da chiamare 'ritorno al domestico' [4].
Per quanto riguarda le relazioni, mi viene in mente quello
che mi ha risposto una donna di 30 anni che si chiama Deborah e fa parte come
facilitatrice del movimento nazionale delle città di Transizione e che è andata
a vivere con il suo compagno in un borgo vicino Perugia. Quando le ho chiesto
in un’intervista cosa significasse per lei ‘essere vicini’ mi ha risposto che
significa essere “davvero dipendenti l’uno dall’altro”, e mi ha fatto l’esempio
del suo vicino di casa che fa il formaggio che lei mangia e che non vuole né autoprodursi, né acquistare al supermercato. Ecco, questo mi ha fatto molto
pensare alla attuale condizione di 'vicinanza' con alcune persone.
Non ho firmato nessun contratto che sancisca una
mia dipendenza da qualcuno o qualcosa, ma posso dire di essere davvero dipendente da Daniel, il direttore
del giornale che gestiamo quotidianamente, con il quale immagino ogni giorno le sorti
dei nostri progetti comuni e del nostro futuro prossimo; di essere davvero dipendente dal mio compagno, con
cui condivido economie e attività di manutenzione quotidiane e che ha una
attenzione e una conoscenza della cucina che io non ho; di essere davvero
dipendente dalla mia famiglia con cui condivido beni materiali, cibo,
assistenza, affetto; di essere davvero dipendente dalle mie compagne di
politica, con cui scambio libri, passaggi in macchina, idee, annunci di lavoro
e soprattutto strategie di sopravvivenza. Non so dire se tutto questo sia un bene, perché a
volte vivere con l’impressione che se venisse meno un nodo di questa rete verrebbe meno anche una parte della tua libertà è a dir poco spiazzante,
soprattutto venendo fuori da un modello dove per mezzo del denaro hai l’illusione
che la tua libertà non venga mai meno perché dipende da un sistema di deleghe a
terzi piuttosto che dalla relazione con persone in carne e ossa. Comunque, non potendo giudicare, per ora mi limito a constatare quello che accade:
proprio nel momento in cui ci ripetono ovunque che siamo "tutti sostituibili",
si creano reti di solidarietà in cui ognuno è insostituibile per l'altro.
Su quello che prima ho chiamato ‘ritorno al domestico’,
devo fare un inciso, perché è fondamentale rendere visibile la posizione da cui
si parla: per tornare a casa bisogna disporre di uno spazio da abitare, e oggi
abitare non è un diritto ma un privilegio, io in questo senso mi sento in
dovere di dire che ho avuto la possibilità di accedere a questo privilegio, ma
non mi basta. È una questione di giustizia, che non svanisce quando giro le
chiavi nella toppa e mi chiudo la porta alle spalle. Sono stata all’Aquila, due
anni dopo il terremoto, e quelle macerie, le crepe lungo i muri delle abitazioni del centro 'bene', ora un centro fantasma, mi hanno parlato soprattutto di
questo: che i confini tra casa tua e il mondo sono adesso completamente permeabili,
dobbiamo prenderne atto. Camminare lungo le strade del centro dell’Aquila per
me è stato come camminare lungo la ferita aperta di reciproche indifferenze
durate troppi anni, giustificate e protette dai perimetri di cemento armato
degli appartamenti familiari. La sfilza di chiavi delle abitazioni crollate,
appese per strada, per me sono state una potente testimonianza del fatto che
non possiamo più separare quello che succede tra le mura di quel cemento e ciò che accade fuori. Al terremoto materiale se ne aggiunge uno di senso quindi.
In secondo luogo, come donna, sulla mia pelle ho provato
che ‘tornare a casa’, anche quando si tratta di lavoro, non è mai un
passaggio semplice, perché si porta dietro il carico di una ineliminabile
memoria storica, quella delle donne che sono venute prima, e che hanno lottato
per uscire e far sentire la loro voce in uno spazio condiviso.
Dall’altra parte, mi sembra che accanto alla ormai
frequentata affermazione che “per cambiare il mondo bisogna varcare l’uscio di
casa”, stia prendendo corpo la consapevolezza che “l’unica rivoluzione
possibile è quella che inizia da casa tua”.
Penso alle pratiche di sostenibilità che molti di noi
stanno intraprendendo: dal consumo di prodotti alimentari o per la casa
biologici ed ecologici, alla coltivazione di un orto in balcone, alla riduzione
dei consumi, alla raccolta differenziata, alle scelte energetiche e abitative
meno impattanti, allo scambio di prodotti, pratiche e idee nel corso di
riunioni che si svolgono dopo il lavoro nelle case... L’attraversamento del
confine tra domestico e politico, innescato anni fa proprio dalle donne con
quel il personale è politico, mi sembra
che oggi si voglia concedere tutte le direzioni possibili, aprendo la strada
all’inclusione del politico nel domestico. Uno sconfinamento che rischia di
essere indigesto per la nostra cultura politica, tanto più per una donna, e che
quindi credo vada necessariamente ripensato.
Se non fosse per il fatto che non si tratta esattamente di
‘un ritorno a casa’, sarebbe una
questione noiosa da porsi. Ma tornare indietro è impossibile quando è lo
sguardo ad essere mutato, e forse tornare a casa non ha soltanto a che fare con
il luogo da cui veniamo, ma con quello verso cui siamo in movimento. Credo che
dovremmo ripartire da qui, prendere a misura la dimensione ‘domestica’ (e non ‘addomesticata’) delle nostre esistenze per capire dove stiamo andando. Se non
ripartiamo dallo stile di vita che vogliamo, dalla vita che ci assomiglia, ho
l’impressione che non ci spingeremo molto lontano da qui.
Note a margine
1. l'immagine del ricalcolare il percorso è spuntata fuori durante una lezione di canto, sono in debito di immaginario, quindi, con la mia insegnante Carla, che l'ha usata per farmi capire come funziona la voce nel corpo, come accade per tutti i conflitti tra il vecchio e il nuovo che ci portiamo addosso, è difficile farla uscire dal sentiero già calpestato. Ma questa è un'altra storia!
2. Sulla distinzione tra manutenzione e cura rimando alle parole di Pina Nuzzo, delegata nazionale UDI fino al 2011
3. Consiglio di lettura, Virginia Woolf, 'Professioni per le donne', 1931
4. Consiglio di lettura, Sandra Burchi 'Lavorare in casa. Racconti di uno strano ritorno', Genesis, VII/1-2
1. l'immagine del ricalcolare il percorso è spuntata fuori durante una lezione di canto, sono in debito di immaginario, quindi, con la mia insegnante Carla, che l'ha usata per farmi capire come funziona la voce nel corpo, come accade per tutti i conflitti tra il vecchio e il nuovo che ci portiamo addosso, è difficile farla uscire dal sentiero già calpestato. Ma questa è un'altra storia!
2. Sulla distinzione tra manutenzione e cura rimando alle parole di Pina Nuzzo, delegata nazionale UDI fino al 2011
3. Consiglio di lettura, Virginia Woolf, 'Professioni per le donne', 1931
4. Consiglio di lettura, Sandra Burchi 'Lavorare in casa. Racconti di uno strano ritorno', Genesis, VII/1-2
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