Da giorni quindi ogni mattina mi incastro su questa frase.
Sin dall'inizio ho provato un indistinto fastidio, che mi si è poi chiarito come il rifiuto per una massima che nella mia vita ho deciso di non seguire.
Condizionata dal costante lamento pubblico sulla disoccupazione giovanile, ho iniziato a lavorare in un'azienda quando ancora ero alle prese con lo studio. Volevo laurearmi e affrontare la ricerca di un lavoro a me congeniale con in tasca già la garanzia di un impiego sicuro. Poi il desiderio mi ha portata da un'altra parte, ho lasciato il lavoro sicuro, ho iniziato ad esplorare altre strade e non ho più smesso.
Insomma quella sentenza spacciata come indiscutibilmente saggia, quella sintesi di prudenza, non mi convince: non è detto che io sappia oggi chi voglio essere domani, per cui non è detto che sia in grado di decidere alcunché. A questo punto preferisco chiedermi ogni giorno se mi sento bene dove sto e facendo quello che faccio.
E così arrivo alla radice più profonda del mio fastidio, e cioé che quella frase propone come una considerazione ovvia qualcosa che non lo è affatto: scegliendo un percorso di studio o di lavoro io non scelgo chi sono!
Se da una parte l'idea mi appare un po' assurda, dal momento che presuppone che io stia in una specie di limbo dell'identità fino a quando non sia pronta ad identificarmi completamente in un ruolo lavorativo (per cui oggi io sarei un non ancora), dall'altra le devo riconoscere forza, nella misura in cui riassume due concetti, due supporti essenziali per il funzionamento del sistema studio-lavoro, a cui la maggior parte delle persone dà credito.
Intanto l'idea che lo studio non sia altro che formazione al lavoro, preparazione per ricoprire un ruolo professionale, acquisizione di competenze spendibili sul mercato, che si possano certificare, quantificare, in moduli, in crediti formativi, in attestati, in denaro.
L'altra è l'equazione che fa coincidere chi siamo con ciò che facciamo lavorativamente e la considerazione che ho di me stessa con lo status professionale che sono riuscita a conquistare.
Mi chiedo se ai bambini si domandi ancora “cosa vuoi fare da grande?” e non piuttosto “chi vuoi essere da grande?”, se non sia già intervenuta un'irrimediabile modificazione al livello del linguaggio, che li prepari ancor di più ad aderire a questo modello.
Angela
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