Volevamo parlare della piazza. Ci
sembrava fosse un’urgenza dei nostri corpi e della situazione politica che si
agitava attorno a noi. Ma quando abbiano provato, ci siano rese conto che prima
di tutto abbiamo bisogno di pratiche radicate nelle nostre singolari esistenze.
Il salto sulla piazza, o sulla dimensione allargata, per pensarne e poter dire
della sua problematicità, è troppo lungo se prima non ci posizioniamo su
qualcosa di nostro, in una dimensione più stretta.
Per arrivare a questa consapevolezza
abbiamo passato al vaglio il possibile. Per capire qual era davvero la
direzione da prendere. Ci siamo impelagate in una lista di cose da fare e da
pensare. È quell’affanno di quando si muove qualcosa e si fanno dei tentativi
per aiutarla a venir fuori. Tra il caos e la messa in ordine, ci siamo perse
per strada il pensiero in presenza, ma non il desiderio, né la certezza che
questo è uno spazio fecondo in cui farlo attecchire.
Ripartiamo da noi. Quando è nato il
collettivo ci vedevamo una volta al mese, ora una a settimana (mercoledì) non
basta per tutto quello che ci vorremmo mettere dentro! Direte: bello! certo, ma
questo ci porta a una riflessione più ampia su quanto tempo ci richiede la politica, tra noi e con
altre.
La questione dei tempi non si può più
rimandare: dov’è, in tutto quello che faccio, il tempo per me? È la domanda che
ci siamo poste. E poi abbiamo pensato alle pratiche del teatro, a quella bella
pratica di tenere aperte le prove degli spettacoli, alla possibilità di far
vedere a chi vuole come si costruisce uno spettacolo, giorno dopo giorno, passo
dopo passo, prova dopo prova.
Ecco il senso di questi post. Sono delle
prove aperte, per chi vuole.
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