martedì 8 novembre 2011

Lettera aperta all'Udi

Siamo entrate nella sede nazionale dell’Udi in punta di piedi, era la Scuola politica del 2009. In questi due anni ci siamo rientrate più e più volte: come relatrici, come uditrici, come filosofe, come donne. Abbiamo portato la nostra esperienza, i nostri saperi, le nostre relazioni, la nostra politica. In cambio abbiamo ricevuto esperienza, saperi, relazioni, politica, quella dell’Udi, quella di Pina Nuzzo. Ci siamo incontrate, noi, con le giovani donne dell’Udi, con le donne più grandi, con le storiche, incarnando spesso quell’antico contrasto che poneva le femministe, quelle del pensiero della differenza, contro il movimento delle donne. Contrasto trasformato in un dialogo a più voci, in cui tutte le donne, le più giovani, le meno giovani, quelle dell’Udi, quelle no, si sono rincontrate sulla strada del femminismo, ognuna con le proprie differenze, con la propria origine, ma lontana da appartenenze che potessero impedirci di parlarci, di ascoltarci.
Oggi, dopo essere state anche a Bologna, al Congresso dell’Udi, anche lì entrate in punta di piedi ma non rimaste, ci sentiamo in dovere di dire, di raccontare, la nostra Udi, quella che abbiamo abitato in questi anni, senza tessere, ma con le relazioni, quelle relazioni su cui fondiamo la nostra politica e attraverso le quali siamo state accolte in quella bella sede romana, da quelle donne che in soli 10 anni l’hanno resa storica.
Non abbiamo riconosciuto nelle dinamiche del congresso l'Udi che avevamo imparato a conoscere e ad apprezzare, ma soprattutto ci è parso che ciò che dell'Udi ci aveva calamitate non trovasse lì adeguato riconoscimento, scelte che l'hanno resa ai nostri occhi unica nel panorama dei movimenti e dei partiti venivano di colpo lette come una perdita, come un elemento di debolezza.
Un esempio per tutti è stata la controversia sul rapporto con i partiti.


Il lavoro faticoso di tessitura tra passato e presente e nel presente stesso che l'Udi porta avanti non dovrebbe essere appiattito su iniziative estemporanee di partiti o altre organizzazioni, che utilizzano le donne come grimaldello per raggiungere obiettivi politici da cui poi le donne sono escluse.
Ciò non significa che un confronto non sia possibile.

Vorremmo che ci fossero donne nei partiti che facessero una politica delle donne e donne nell'Udi che si relazionassero anche con loro, ma a condizione del riconoscimento reciproco della titolarità e degli sforzi delle une e delle altre, in una relazione che non annienti le differenze, che non limiti l'autonomia e soprattutto che non riduca le possibilità di espressione di ciascuna donna che non si identifichi in appartenenze di partito.
Viceversa se le une si riducono alle altre il nostro orizzonte si impoverisce, come donne abbiamo una possibilità in meno: una possibilità in meno di far politica in un modo o in un altro, una possibilità in meno di incontrare altre donne che fanno politica, una possibilità in meno di confronto. Insomma come femministe siamo più povere, come donne meno libere.

Perché una delle “definizioni” che ci piace del femminismo è quella che lo nomina come lavoro per aprire spazi di libertà alle donne, alle altre, anche quando sto lottando per la mia, di libertà. E viceversa. Si aprono spazi alla mia libertà anche quando lotto per la libertà di un'altra.
Abbiamo l'impressione che le donne abbiano una memoria elefantiaca. Non dimenticano nulla. Neanche “quella volta che nel 1932 quella non mi ha salutata”.

Ora di questi tempi bisogna dire che la memoria è importante (ed è vero), ma per fare che? Per rimanere a contemplarla? Per operazione nostalgia? La memoria deve fare i conti con la storia. Story/history – storia personale e storia collettiva.

Una delle cose che amiamo delle donne più grandi, quelle che ci guidano senza prenderci per mano, ci mettono alla prova dandoci tutta la loro fiducia – e Pina è una di queste - è che sono donne consapevoli di avere l'età che hanno e la loro efficacia politica deriva anche dal saper leggere “i segni dei tempi” e che li sappiano leggere perché sanno leggere i segni del tempo sul loro corpo che è la loro vita. In questo crediamo ci sia un modo di stare e far politica autenticamente femminile. “Ci affascina meno il potere perché abbiamo più forte il senso del passaggio. E quando ci facciamo attrarre dal potere ci dimentichiamo un po' del passaggio”.
In questo senso l’Udi ci ha restituito una memoria, e anche qui l’autonomia è stata fondamentale. Essere in relazione con un’associazione di donne che fanno politica, autonoma rispetto ai partiti e alle loro logiche, è una garanzia di autenticità. Come è una garanzia di autenticità porre al centro la relazione da donna a donna e non l’appartenenza di una donna a qualcosa. È una questione di libertà: solo se queste due condizioni continueranno a trovare realizzazione insieme, come è stato in questi anni, potrà ancora avere luogo la nostra relazione con l'Udi.

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