martedì 9 febbraio 2010

Teresa tra presente passato e futuro

Presente

Attualmente la mia prima occupazione è cercare di conciliare i diversi lavori che faccio, dividerli tra retribuiti e non retribuiti, scegliere quelli che più mi assomigliano tra i retribuiti, ritagliarmi il tempo per quelli non retribuiti, tenendo comunque sempre un occhio al portafogli.

Fino a qualche mese fa potevo definirmi disoccupata cronica, ora sono diversamente occupata, e anche tanto. Sono una blogger per metà giornata, una giornalista/redattrice per l’altra metà. Due lavori per riuscire a tirar fuori uno stipendio (quasi) decente.

Collaboro a cuore pieno con una rivista di politica femminile, DWF, e con altre giovani diversamente occupate.

Saltuariamente aiuto una donna a scrivere comunicati e lettere per il suo partito, lo faccio per un legame affettivo indiretto.

Nel tempo libero, cioè la notte, scrivo. Saggi, racconti, recensioni, un blog, anzi due.

Passato

Quando ancora frequentavo il liceo, a partire dai 16 anni, lavoravo nel pomeriggio e durante il fine settimana d’inverno, a tempo pieno d’estate. Ho fatto nell’ordine: ripetizioni ad un ragazzino delle medie, banconista nella panetteria sotto casa, commessa in un negozio di abbigliamento, cameriera in un bar/gelateria, bagnina, ancora commessa (in un altro negozio di abbigliamento), assistente all’istruttore nella piscina in cui ho nuotato per tutta la vita. Tutto in nero. Quindi, se dovessi pensare al futuro, cosa che non faccio per non deprimermi, sono quattro anni di contributi andati persi. Però, se penso al passato, e anche al presente, sono quattro anni di, seppur minima, indipendenza economica, quattro anni di conoscenze, relazioni, esperienze che segnano il confine del “potrebbe essere il mio lavoro/non lo farei neanche morta”.

Dopo il liceo approdo all’università. E’ il 2003. Voglio fare la giornalista, questo è il mio sogno. Corso di laurea in Comunicazione nella società della globalizzazione. Nessuno, dalla mia famiglia ai miei amici, è mai riuscito ad impararne il nome. E poi perché avrebbero dovuto?

Studio, è questo il mio primo lavoro. Nel frattempo, spinta dal desiderio di indipendenza ed autonomia che mi caratterizza da sempre, continuo a lavorare. E a scrivere. Inizio una collaborazione con un quindicinale locale, faccio inchieste e seguo la pagina della cultura (se di cultura si può parlare nella mia città). Due anni di collaborazione gratuita, ma che, grazie alla “benevolenza” del mio editore che mi paga i contributi, mi permettono di diventare pubblicista. Sono una giornalista anche sulla carta ora. Nel frattempo faccio il servizio civile, volontaria (retribuita) per un anno presso la sede di un sindacato, seguo un progetto – guarda un po’ – sullo sviluppo del lavoro atipico. Ritorno in piscina, come istruttrice stavolta, seguo gruppi di bambini, ragazzi ed adulti, è divertente e mi dà soddisfazioni. Collaboro con un’altra testata, un quotidiano, ma il mio nome non uscirà mai perché scrivo i pezzi per un collega che non ha tempo e che divide con me il suo (misero) stipendio.

28 novembre 2006. Mi laureo. Tesi in Filosofia morale: “Etica della comunicazione. La fondazione postmetafisica della morale”. 110 senza lode, perché la mia solita fortuna fa sì che il Presidente di commissione sia l’unico docente cattolico credente-praticante della facoltà.

Mi rimetto a studiare per la Specialistica, Teorie della Comunicazione, questo è un nome più semplice da ricordare.

Decido di farla da non frequentante e di trovare un lavoro a tempo pieno. Lo trovo. Entro come stagista in una società di servizi che si occupa di qualsiasi cosa, dall’ambiente ai trasporti al mondo accademico. E’ lo specchio del Presidente, uomo imbrigliato in mille attività ma che non ne porta a termine una fatta bene. Dopo quattro mesi di stage mi fa un contratto a progetto. Rimango un anno e mezzo. Nel primo periodo riesco a negoziare due pomeriggi a settimana liberi per continuare ad insegnare nuoto, ma finita la stagione natatoria lascio la piscina. In questa società mi occupo un po’ di tutto: scrivo le lezioni del capo che insegna comunicazione in un’università privata, rispondo al telefono, scrivo e-mail, tengo contatti con i clienti, organizzo convegni e seminari, sviluppo progetti improponibili. Una cara amica del capo, una donna capace, competente e precisa, ci fa un regalo. Dico “ci” perché siamo in quattro fissi (il contratto a progetto era una sicurezza), tutti giovani, studenti o neolaureati. Siamo un bel gruppo, si instaura un’atmosfera di complicità, almeno tra le ragazze. Ci regala una testata on line, diventiamo quindi una redazione di un settimanale, ci divertiamo a scrivere.

Dopo un po’ la situazione comincia a starmi stretta. Sento di lavorare senza uno scopo, comincio ad accumulare stress e tensioni da relazione più che da lavoro, allora decido di partire. Unisco l’utile al dilettevole, appoggiata incondizionatamente dalla mia relatrice, e decido di andare a scrivere la tesi in Spagna, a Valencia.

Lavoro l’estate alle Poste, come operatrice di sportello. Un lavoro a dir poco alienante, nel pieno senso marxista del termine, ma molto molto ben remunerato.

Con i soldi delle Poste a settembre 2008 parto. In Spagna faccio ricerche per la mia tesi, imparo una lingua nuova, conosco tanta gente, mi immergo nella calorosa vita spagnola, modifico i miei ritmi, mi godo i vantaggi del vivere da sola, soffro degli svantaggi di essere lontana dai miei cari.

Sei mesi volano. Torno a casa, concludo di scrivere il mio lavoro.

29 aprile 2009. Mi laureo di nuovo. Tesi in Filosofia politica: “La femminilizzazione del lavoro. Voci dall’Italia e dalla Spagna”. Stavolta c’è la lode, tanta soddisfazione e la mia gioia si specchia negli occhi di tutti. E’ un momento magico, un traguardo, il giusto riconoscimento per tanto lavoro e tanto studio, per l’investimento di tempo ed energia, per l’appoggio e le aspettative della mia famiglia e dei più cari amici.

Ma è anche un momento di passaggio, che mi destabilizza. Fino a quando la progettualità del futuro si fissa su un obiettivo ciò che accade intorno è visto come passeggero, di appoggio. Dopo la laurea, l’obiettivo diventa trovare un lavoro, possibilmente un lavoro stimolante, attinente ai miei studi e alle mie passioni, un lavoro che dà soddisfazione, ma che dà anche uno stipendio a fine mese. Le cose si complicano. Il lavoro come passione mal si concilia, in questo momento storico, con uno stipendio decente.

Entro nel limbo dello stage: la Costituzione va modificata, l’Italia è una repubblica fondata sullo stage, perché di lavoro non se ne parla.

Sono stagista a titolo gratuito per due mesi in un Istituto di formazione che vuole avviare un progetto editoriale. Anche qui non guadagno denaro, ma esperienza e relazioni sì, relazioni tra donne. Sì, siamo tutte donne, il direttore vuole solo donne, poi capisco perché: un uomo non lavorerebbe otto ore al giorno gratis, un uomo non firmerebbe un contratto part-time per poi lavorare full-time. Avvio il progetto editoriale, da sola, senza tutor (e qui decade il senso dello stage, che è formativo per legge), mi occupo di tutto, dai contatti, alla rete commerciale, alla comunicazione, alla promozione. Il progetto c’è, mi piace, è mio. Non c’è risposta però da parte di chi lo dovrebbe valorizzare.

Me ne vado, è estate, parto, Spagna.

Torno dalla mia vacanza. Mi chiudono in un campus (a due passi da casa) con altri cento neolaureati da tutta Italia, ci attaccano al collo un numero, ci etichettano come “eccellenze”, e ci rifilano giornate intere di presentazioni aziendali con lo scopo di stabilire un contatto tra noi e le aziende, per uno stage naturalmente. Regredisco ai tempi del camposcuola liceale, mi diverto tantissimo, anche se soffro la reclusione coatta (come fanno quelli del grande fratello?) e mi rincuoro nel vedere che siamo tutti giovani in gamba senza futuro, ma non ci buttiamo giù (qualcuno la chiamerebbe incoscienza, io lo chiamo spirito di sopravvivenza).

Uscita da lì, mi rimetto i panni della stagista. Nella Pubblica amministrazione stavolta. Un posto di prestigio, di quelli che “fanno curriculum”, ovviamente anche qui a titolo gratuito. Dopo una settimana voglio scappare: tempi dilatati, persone anziane e incompetenti, rapporti gerarchici deprimenti, burocrazia soffocante. Resisto, mi re-invento il lavoro, mi re-invento le relazioni anche qui, dove mi sembrava impossibile. Rimango tre mesi, il minimo indispensabile per inserirlo nel cv (quello formale). Non ho imparato niente di nuovo ma ho potuto constatare che ciò che si dice del pubblico è vero e che sicuramente non è il posto per me.

Futuro

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