Il 22 marzo scorso siamo state invitate a partecipare al lancio della Rete nazionale per il reddito minimo (che sta dentro il progetto EMIN - Rete europea per il reddito minimo).
Ecco come ci siamo presentate
Diversamente occupate è un
collettivo femminista che nasce da una precisa volontà politica di giovani
donne: prendere parola sul lavoro, a partire dalle singole esperienze di
ognuna, ma andare oltre la narrazione mainstream della ‘precarietà’.
Il nome - Diversamente occupate –
nomina già una condizione. Da una parte, siamo tutte lavoratrici cosiddette
‘atipiche’, perché il succedersi e spesso la coesistenza dei nostri diversi
lavori ci porta lontano dal modello del lavoratore a tempo pieno, con contratto
a tempo indeterminato, tutelato da diritti relativi alla retribuzione, da
misure di protezione sociale per la perdita dell’impiego, dalla prospettiva di
una pensione, etc.
Dall’altra Diversamente occupate
dice che c’è uno spostamento nel modo in cui stiamo dentro e fuori il mondo del
lavoro, uno spostamento che è pienamente inserito in una serie di dinamiche che
interessano, per parte nostra l’agire politico che mette in scacco la
narrazione dominante sul lavoro, che toglie il lavoro dal centro in un atto che
non è di perdita ma di potenziamento del resto.
La nostra è una posizione sessuata,
che si inserisce, e vuole farlo con voce autorevole, in un cambiamento strutturale
e di sistema rispetto a:
- il
mondo del lavoro, con la crescita del settore dei servizi e la sempre
maggiore importanza del lavoro cognitivo,
- l’organizzazione
della produzione, con il ricorso a tecnologie che permettono di ridurre il
personale, ma anche di delocalizzarlo, rendendo superfluo il concetto di
luogo di lavoro,
- il
modello di capitalismo, immateriale, non solo per la preminenza della
finanza, ma anche perché il valore si sposta dalla produzione
all’immaginario, dalla merce al brand, che significa anche più manodopera
in paesi emergenti, pochi lavoratori in funzioni chiave nel vecchio
continente.
Stare dentro-fuori il mercato del lavoro
Questi cambiamenti si sono tradotti, tra le altre cose, in:
- frammentarietà delle situazioni
lavorative, dislocazione nello spazio, dilatazione dei tempi (con i tempi di
lavoro che vanno a confondersi con i tempi di vita ponendoci tutte e tutti in
disponibilità permanente) soprattutto mediante le tecnologie dell’informazione
(pensiamo a chi lavora da casa). Conseguenze di un cambiamento strutturale
operato dalle istituzioni, a cui non è seguito però un cambiamento di
organizzazione e di metodo (pensiamo al sindacato) che potesse rispondere ad un
modello di lavoro differente da quello fordista.
- Questo si traduce in isolamento
dei singoli e delle singole lavoratrici, non solo rispetto allo sguardo
istituzionale (che non riesce a vederli, rintracciarli, categorizzarli), ma
anche rispetto alla costruzione delle condizioni che sono necessarie per una
negoziazione tra le parti, una negoziazione che salta oggi la mediazione e si
gioca tutta sui singoli, riducendo drasticamente la possibilità di resistere al
ricatto di lavori gratuiti, sottopagati, da ‘finte partite iva’, etc.
- A questo si aggiunge il
discorso sulla sostituibilità di
ciascuno e ciascuna, che accentua la condizione di smarrimento e di isolamento.
Una retorica che lascia nell’oblio ciò che invece oggi regge il sistema
lavorativo: le relazioni. Fiducia e responsabilità sono l’altra faccia della
medaglia dello sfruttamento, che è spesso autosfruttamento, su cui si regge un
sistema intero, soprattutto quello del lavoro immateriale e cognitivo. Se i
rapporti di lavoro oggi - anche in senso subalterno (capo, dipendente) -
saltano la mediazione e si costruiscono sulla relazione, il discorso sulla
sostituibilità viene meno.
- C’è poi la femminilizzazione del lavoro, intesa non tanto come accesso in
massa delle donne nel mondo del lavoro retribuito, quanto come messa a profitto
di capacità relazionali generalmente attribuite alle donne (non traducibili in
denaro) ed estensione anche agli uomini delle caratteristiche del lavoro
femminile, meno pagato, meno tutelato, sempre complementare ad altre forme di
reddito, insufficiente ai fini pensionistici
- A questo si aggiunge l’incapacità del
lavoro di assegnare uno status. L’inconsistenza delle prospettive
lavorative, insieme all’enfasi sulla flessibilità, usata ad arte per rendere
appetibile sia l’impossibilità di garantire prospettive lavorative stabili che
lo smantellamento delle cosiddette ‘rigidità’ del diritto del lavoro, finiscono
per fare cadere l’associazione tra ciò che si è e ciò che si fa, che per gli
uomini era scontata fino a qualche anno fa. Nel momento in cui il lavoro perde
la sua capacità di fornire supporto alla costruzione dell’identità si aprono
scenari di grande smarrimento per gli uomini, ma anche spazi di libertà soprattutto
per le donne che non hanno una genealogia che lega l’identità all’immaginario
sul lavoro retribuito. Cioè dentro questo processo avviene che le persone
mettano in discussione l’organizzazione del lavoro, dei tempi di vita come
residuali ad esso, del tempo libero come ulteriore attività produttiva che
consiste nel consumo. E succede anche che qualcuno metta in discussione l’idea
di una società in cui i diritti sono costruiti attorno alla figura del lavoratore
e non del cittadino, un lavoratore a tempo pieno, maschio, bianco, unico
cittadino dello stato sociale patriarcale.
Il passaggio dalla nostra condizione alla necessità del reddito minimo
Se, come dice Pateman, il
criterio principale dello stato sociale patriarcale è rappresentato
dall’indipendenza e questa a sua volta è costruita su abilità e attributi
maschili - ricavando per difetto una dipendenza tutta declinata al femminile -
il piano dell'attuale modello di cittadinanza e di welfare (costruito attorno a
quel lavoratore) prevede l’esclusione di tutti coloro che non si conformano a
questa figura dal sistema dei diritti di protezione sociale, compresa la
distribuzione del reddito.
Questo il percorso attraverso cui
siamo arrivate ad appoggiare una proposta di legge per il reddito minimo
garantito. Dice Pateman: “Le basi sociali dell’idea di un’occupazione
(maschile) a tempo pieno si stanno sgretolando. E’ visibile l’opportunità di
creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una
società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così
come gli uomini, possano fare pienamente parte”.
A partire da qui, ossia da una
posizione sessuata, è possibile pensare una nuova cittadinanza, perché le donne
sono sempre state un soggetto escluso, e quindi più libero, rispetto a un
modello di cittadinanza che oggi è in crisi, per tutti. È ora che anche il
nostro Paese faccia i conti con quei diritti slegati dal lavoro, cioè quei
diritti di cittadinanza da cui, le donne prima e oggi tutti, siamo esclusi. Il
reddito è uno di questi diritti.
La crisi della cittadinanza porta
con sé la crisi delle coordinate del reddito, inteso come reddito diretto
(denaro), reddito indiretto (servizi, welfare pubblico), a cui vanno aggiunte
le politiche sulle condizioni materiali di vita. Anche qui le donne per
genealogia hanno una posizione autorevole per pensare un reddito sganciato dal
lavoro, che diventi uno strumento per
Cosa ci aspettiamo dal reddito minimo
- rispondere
all’esigenza di diritti sociali per chi è escluso dagli strumenti di
protezione tradizionali, perché il lavoro full time a tempo indeterminato
accompagnato da diritti è in arretramento, ma d’altra parte questo modello
è ora inapplicabile a molte categorie di lavoratori o non desiderabile;
- costituisca
l’occasione per cominciare a pensare un sistema di diritti che corrisponda
ai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro e nella società, diritti universali,
sganciati dal lavoro;
- rappresenti
una forma di restituzione – che ci piace chiamare RESTITUZIONE D’ESISTENZA
- per il lavoro gratuito o non riconosciuto, ma che produce coesione,
innovazione sociale, tra cui la politica, il welfare a costo zero garantito
ancora dalle donne, etc.
E’
importante fare alcune precisazioni: il reddito non va sganciato dal discorso
sul welfare e dei servizi, non va inteso solo in senso monetario. Allo stesso
tempo, il discorso sul reddito, ovviamente, va tenuto insieme al lavoro. Le
politiche attive del lavoro non sono in contraddizione con il reddito minimo,
ma questo è uno strumento che permette di sottrarsi a una logica
produttivistica, al ricatto della disponibilità permanente a costo zero.
Concepiamo insomma il reddito come lo strumento “tecnico”, la riforma strumentale
da cui muovere per un orizzonte più ampio, per costruire un percorso
politico-culturale che vada verso l’invenzione di un nuovo paradigma di
cittadinanza, attraverso pratiche di partecipazione, autogoverno che
ridefiniscano il significato della ricchezza, dove per ricchezza si intende
tutto ciò che è risorsa, oggi a rischio scarsità per la tendenza capitalista
alla privatizzazione (cultura, saperi, corpo, acqua, territorio, scuola,
sanità, incluso denaro).
Il reddito può contribuire alla
ricostruzione di una cultura del comune, liberando tempi, mettendo in
connessione le rivendicazioni di categorie di lavoratori finora messe in
contrapposizione (garantiti-non garantiti), favorire coesione sociale.